Nell’East End di Londra le donne vittime di tratta vengono aiutate a rimettersi in gioco attraverso il potere terapeutico del canto. Nasce il coro “Amies” che ha riportato armonia e serenità dove c’era solo grigiore e sgomento.

Parlare di sfruttamento oggi risulta ancora più complesso, nel mondo globalizzato, dove tutto sembra a portata di mano e raggiungibile nell’istante di un click, c’è ancora chi lotta – in alcune parti del mondo – silente per evitare la schiavitù restando aggrappato alla vita con lo scopo di trovare un contesto sociale più civile.
Anche questo significa accoglienza: comprendere i bisogni di persone che affrontano, nella stragrande maggioranza dei casi, viaggi della speranza con più dubbi che certezze di riuscire ad arrivare alla fine: è successo, fra gli altri, a tante donne. Continua a succedere nell’indifferenza generale: arrivano dai Caraibi, dall’Africa, dall’Europa orientale o dal Sudest asiatico, sono sole catapultate (anche con l’aiuto – l’unico – della sorte) in grandi metropoli e la loro preoccupazione più grande è riuscire a conquistarsi un futuro.
Ricostruirsi una vita attraverso il canto, con “Amies” è possibile

Proprio dal punto di vista pratico, le schiave di tratta, così vengono definite, vogliono con tutte le loro forze sanare lesioni fisiche e mentali subite fra un posto e l’altro, nell’attraversamento di frontiere e centri nevralgici, in cui le vedono soltanto come merce di scambio o bene di consumo. Nel ‘migliore dei casi’, un numero – al pari di tanti – da accatastare nell’universo dei “non morti”: tutte quelle persone che sopravvivono anziché vivere.
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Queste donne, senza infamia e senza lode per una civiltà presa dall’indolenza trascinante e cinica della quotidianità, soffrono frequentemente di problemi di salute mentale come il disturbo da stress post-traumatico, la depressione e l’ansia. A sottolinearlo è l’Unicef che, in modo chiaro e inequivocabile, spiega: “Subiscono violenze e abusi che includono anche la deprivazione della libertà personale, violenze economiche, fisiche e sessuali che portano a conseguenze gravi e talvolta pericolose per la vita stessa”.
Prive di autostima e convinte, loro malgrado, che non ci sia niente di meglio restano in balia degli eventi senza una reale e soddisfacente prospettiva di vita poiché, per loro, tutto diventa un lusso. Anche la sopravvivenza. A Londra, nell’East End, una sessantina di donne dai 16 ai 25 anni ha trovato un punto di svolta, un pretesto per ricominciare, gettandosi alle spalle scelleratezze e barbarie, grazie alla musica.
Nove anni fa, dall’idea di Adwoa Dickson e Annabelle Rook (rispettivamente cantante e musicoterapeuta, regista e produttrice), è nato il seminario teatrale – con cadenza settimanale – per aiutare le sopravvissute al traffico di esseri umani a credere di nuovo in sé stesse. Da quest’esigenza è nato un vero e proprio coro, che prende il nome di “Amies” (amiche, dal francese).
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“La mia autostima, che era a terra, è aumentata gradualmente: adesso posso interagire e fare domande alle altre persone. Prima, non ero in grado di farlo. Quando canto, mi sento felice, molto leggera, e tutto quello che è al di fuori di me, di qualunque cosa si tratti, scompare”, rivela una delle ragazze coinvolte in questo progetto.
Hanno riacquistato coraggio e voglia di vivere, oltre che motivazioni e determinazione, proprio grazie al canto: quest’arte ha permesso loro – spiegano le ideatrici e promotrici dell’iniziativa – di confrontarsi e tornare a guardarsi dentro capendo che forse non era tutto perduto. L’approccio al coro è un percorso graduale che, appunto, si fa in gruppo e, come fra buone amiche, non ci si molla mai. Nessuna resta sola, tutte procedono insieme unite dalla voglia di tornare a mettersi in gioco dalla più schietta alla più timida. Se esiste una dimostrazione di resilienza, probabilmente si cela fra una nota e l’altra di queste artiste che hanno fatto della strada una conseguenza e dell’armonia una (nuova) ragione di vita. In barba a qualunque tipo di stonatura, non sempre è solo questione di musica.
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