Lettera al mio stupratore: “non mi conosci, ma sei stato dentro di me”

Una ragazza vittima di stupro presenzia al processo al suo aggressore e legge in tribunale una lettera per raccontare la violenza e le sue conseguenze

lettere vittima a stupratore
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Era il 18 gennaio del 2015 quando in un campus universitario di Palo Alto, in California, uno studente dell’università di Stanford violentò una ragazza incontrata a una festa.

Il ragazzo si chiamava Brock Allen Turner, il nome della ragazza rimane invece ad oggi segreto per proteggere la sua privacy. Lui fu arrestato: due studenti che passavano in bicicletta lo videro abusare di una ragazza dietro un cassonetto, si avvicinarono e chiamarono la polizia, trattenendo Turner fino all’arrivo della polizia.

Il ragazzo fu dichiarato colpevole il 2 giugno e condannato a sei anni di reclusione e libertà vigilata.

Giustizia fatta insomma? Forse no o, almeno, no per quella ragazza ritrovata con una sto tasso di alcol in corpo, completamente incosciente e seminuda. Per lei che si è svegliata in ospedale senza sapere cosa fosse accaduto e che ha dovuto scoprirlo dalle parole di un agente, la giustizia è difficile da raggiungere.

Già perché quando è il tuo stesso corpo a spaventarti, quando non lo riconosci più perché non sai chi lo ha toccato, pensare di poter uscire vincitrice è impossibile.

Alla ragazza fu detto di tornare alla sua vita. Tornare alla vita? E come? Senza sapere di preciso cosa sia accaduto, coperta di livide e con una grande confusione che preannuncia il dolore seguente.

Allora è l’isolamento lo prima via da tentare, allontanare chi mai per la paura che il dolorosi loro volti ti possa far crollare. Poi arriva la paura, la paura che non ricordare sia una colpa: “Però non me lo ricordo, quindi come faccio a dimostrare che non mi è piaciuto?”

E su questo dubbio si avventano tutti, gli avvocati di lui puntano proprio sull’ipotesi che la ragazza in realtà fosse consenziente.

L’umiliazione se possibile cresce, tanto che quando si avanza l’ipotesi della vittoria la ragazza quasi non sa come accettare la cosa.

A un certo punto però lo accetti. La verità ha trionfato. Oltre le umiliazioni, le distorsioni, le ingiurie, ecco che al verità trionfa.

Allora la ragazza decide di dire la sua, di raccontare la sua versione dei fatti o, quantomeno, il suo punto di vista.

Lo fa con una lettere, una missiva proprio per lui, l’uomo che l’ha violentata. Una lunga dichiarazione in cui rispondere alle insinuazioni subite e raccontare non tanto quanto accaduto (già perché un ricordo preciso non c’è) quanto piuttosto come la sua vita è cambiata da quella notte.

Infine però c’è spazio per un’inattesa speranza, un augurio proprio lui, all’uomo che ha abusato di lei: l’augurio di redimersi, di dare una svolta alla sua vita, di essere utile al mondo.

Una missiva a dir poco sorprendente, shoccante a ogni capoverso e senza dubbio difficile da leggere ma meritevole di esser conosciuta in tutta la sua devastante veridicità.

Rileggiamola allora insieme e insieme facciamone tesoro.

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Lettera di una ragazza all’uomo che l’ha stuprata

lettera stupro tribunale
Foto da iStock

“Vostro onore,

Se me lo permette, vorrei rivolgermi direttamente all’imputato per la maggior parte di questa dichiarazione.

Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che oggi siamo qui. Il 17 gennaio 2015 stavo passando una serata tranquilla a casa. Mio padre aveva preparato la cena ed ero a tavola con mia sorella più piccola, che era tornata per il fine settimana. Avevo un lavoro full-time ed era quasi ora di andare a letto. Il mio programma era rimanermene a casa da sola, guardare un po’ di TV e leggere, mentre mia sorella sarebbe andata a una festa con i suoi amici. Poi, però, decisi che era l’unica serata che potevo passare con lei, non avevo niente di meglio da fare, e quindi perché no? C’era una festa a dieci minuti da casa mia, sarei andata, avrei ballato come una scema e messo in imbarazzo la mia sorellina. Mentre andavamo, le dissi scherzando che gli studenti avrebbero avuto l’apparecchio, e lei mi prese in giro perché mi ero messa un cardigan beige per andare a una festa di una confraternita e sembravo una bibliotecaria. Scherzai dicendo che sarei stata “la mamma”, perché sapevo che sarei stata la più vecchia. Alla festa mi misi a ballare facendo le facce stupide, abbassai la guardia e bevvi troppo velocemente, non tenendo conto del fatto che reggevo l’alcol molto meno rispetto a quando andavo al college.

Dopodiché, la prima cosa che mi ricordo è di essermi risvegiata sopra una barella in un corridoio, con del sangue secco e della bende sul dorso delle mani e sul gomito. Pensai che forse ero caduta e ora mi trovavo nell’ufficio del responsabile del campus. Ero calma e mi chiedevo dove fosse mia sorella. Un agente mi disse che ero stata violentata. Mantenni la calma, convinta che stesse parlando con la persona sbagliata: non conoscevo nessuno a quella festa. Quando finalmente mi lasciarono andare in bagno, mi abbassai i pantaloni che mi avevano dato in ospedale, feci per abbassarmi le mutande e non sentii niente. Ricordo ancora la sensazione che provai quando le mie mani toccarono la pelle, non trovando niente. Guardai in basso e vidi che non c’era niente. Quel sottile strato di tessuto, l’unica cosa tra la mia vagina e qualsiasi altra cosa, non c’era, e dentro me cadde il silenzio. Non ho ancora parole per descrivere quella sensazione. Per continuare a respirare, pensai che forse dei poliziotti le avessero tagliate con le forbici per usarle come prova. Poi, sentii degli aghi di pino che mi graffiavano dietro al collo, e iniziai a togliermene altri dai capelli. Pensai che forse gli aghi erano caduti da un albero, finendomi in testa. Il mio cervello stava parlando alla mia pancia per non farmi crollare. Perché quello che la mia pancia stava dicendo era aiutatemi, aiutatemi.

Mi trascinai di stanza in stanza avvolta da una coperta, lasciandomi dietro una scia di aghi di pino e formandone un mucchietto in ogni stanza in cui passavo. Mi chiesero di firmare documenti in cui c’era scritto «Vittima di stupro», e lì pensai che fosse davvero successo qualcosa. Mi avevano requisito i vestiti ed ero nuda, mentre le infermiere misuravano le diverse abrasioni sul mio corpo con un righello e le fotografavano. Con le due infermiere mi pettinai i capelli per togliermi gli aghi di pino, sei mani al lavoro per riempirne un sacchetto. Per calmarmi, mi dissero che era soltanto flora e fauna, flora e fauna. Mi inserirono diversi tamponi nella vagina e nell’ano, mi fecero delle iniezioni, mi diedero delle pastiglie, e c’era una macchina fotografica puntata in mezzo alle mie gambe divaricate. Inserirono dentro di me dei lunghi beccucci appuntiti e versarono nella mia vagina una specie di vernice blu e fredda per controllare se ci fossero abrasioni. Dopo qualche ora passata in questo modo mi lasciarono fare una doccia. Esaminai il mio corpo sotto il getto di acqua e decisi che non lo volevo più. Mi terrorizzava, non sapevo cosa ci fosse entrato, se era stato contaminato, chi l’avesse toccato. Volevo togliermi il mio corpo come se fosse una giacca e lasciarlo in ospedale insieme a tutto il resto.

Quella mattina, le uniche cose che mi dissero furono che ero stata trovata dietro a un cassonetto, che forse ero stata penetrata da uno sconosciuto e che avrei dovuto rifare il test per l’HIV perché non sempre i risultati sono corretti da subito. Per il momento, però, sarei dovuta andare a casa e tornare alla mia vita di sempre. Immaginatevi cosa significhi dover tornare nel mondo avendo soltanto queste informazioni. Mi diedero dei grandi abbracci e io uscì dall’ospedale per andare verso il parcheggio, con addosso la nuova felpa e i pantaloni della tuta che mi avevano dato, visto che mi avevano fatto tenere solo la mia collana e le scarpe. Mi venne a prendere mia sorella. La sua faccia era bagnata dalle lacrime e deformata dall’angoscia. Istintivamente, ebbi subito il desiderio di farla smettere di soffrire. Le sorrisi e le dissi di guardarmi: ero lì e stavo bene, andava tutto bene, ero lì con lei; avevo lavato i capelli, in ospedale mi avevano dato uno shampoo stranissimo, doveva calmarsi, e guardarmi; guardare questi strani pantaloni della tuta e questa felpa, sembravo una professoressa di educazione fisica; ora dovevamo andare a casa e mangiare qualcosa. Non sapeva che sotto i pantaloni, sulla mia pelle, c’erano graffi e bende, che la mia vagina mi faceva male e aveva preso uno strano colore scuro per via di tutti gli esami, che non avevo le mutande e che mi sentivo troppo svuotata per continuare a parlare. Che avevo paura, e che ero distrutta.

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Quel giorno tornammo a casa e mia sorella mi abbracciò per ore. Il mio ragazzo non sapeva cos’era successo, ma quel giorno mi chiamò e mi disse: «Ieri sera mi sono preoccupato molto, mi hai spaventato, sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Ero terrorizzata. In quel momento scoprii che quella notte l’avevo chiamato durante il mio blackout, che gli avevo lasciato un messaggio incomprensibile in segreteria, e che avevamo anche parlato al telefono, ma che biascicavo così tanto da averlo fatto spaventare, e che mi aveva detto più volte di andare a cercare mia sorella. Me lo chiese di nuovo: «Cosa è successo ieri sera? Sei riuscita a tornare a casa tranquilla?». Gli dissi di sì, poi riattaccai e cominciai a piangere.

Non ero pronta a raccontare al mio ragazzo o ai miei genitori che forse mi avevano stuprata dietro un cassonetto, ma che non sapevo chi fosse stato, né quando o come fosse successo. Se glielo avessi raccontato, avrei visto la paura sulle loro facce, che avrebbe fatto moltiplicare la mia di dieci volte. Quindi finsi che non fosse vero. Cercai di spingere il pensiero fuori dalla mia testa, ma era così pesante che non riuscii a parlare, mangiare, dormire, né interagire con nessuno. Dopo il lavoro, prendevo la macchina per andare in qualche posto isolato e urlare. Non parlavo, non mangiavo, non dormivo, e non interagivo con nessuno, e mi isolai dalle persone a cui volevo più bene. Per una settimana nessuno mi chiamò o mi diede aggiornamenti su quello notte o su cosa mi era successo. L’unica cosa che dimostrava che non era stato solo un brutto sogno era la felpa dell’ospedale nel mio cassetto. Un giorno al lavoro mentre scorrevo le notizie sul mio telefono, capitai su un articolo. Leggendolo, venni a sapere per la prima volta che ero stata trovata svenuta, con i capelli arruffati, la mia lunga collana attorcigliata intorno al collo, il reggiseno fuori dal vestito, il vestito tirato su dalla vita fin sopra alle spalle, che ero completamente nuda fino agli stivali, con le gambe divaricate, e che ero stata penetrata da un corpo estraneo da una persona che non riconobbi. Questo fu il modo in cui scoprii cosa mi era successo, seduta alla mia scrivania mentre leggevo le notizie al lavoro. Scoprii cosa mi era successo nello stesso momento il cui lo scoprì il resto del mondo. In quel momento capii perché avevo degli aghi di pino tra i capelli: non erano caduti da un albero. Mi aveva tolto le mutande e le sue dita erano state dentro di me. Non la conoscevo nemmeno questa persona. Non la conosco ancora oggi. Quando lessi di come mi avevano trovata, mi dissi che non potevo essere io. Non potevo essere io. Non potevo elaborare né accettare nessuna di quelle informazioni. Non potevo pensare che la mia famiglia avrebbe dovuto scoprirlo da Internet. Continuai a leggere. Nel paragrafo dopo, lessi una cosa che non perdonerò mai. Che secondo lui mi era piaciuto. Mi era piaciuto. Non ho davvero parole per descrivere cosa provai.

È come se leggeste in un articolo su un’auto trovata ammaccata in un fosso che magari alla macchina era piaciuto. Che forse l’altra macchina non aveva intenzione di speronarla, solo di darle un colpetto. Le auto fanno incidenti tutti i giorni, le persone non ci badano, possiamo davvero dire di chi sia la colpa?

Verso la fine dell’articolo – dopo aver letto i dettagli espliciti della violenza sessuale che avevo subito – l’articolo parlava del periodo in cui faceva nuoto. “Quando l’hanno trovata respirava ma non reagiva, le sue mutande erano a 15 centimetri dal suo ventre nudo, ed era in posizione fetale”. E comunque, lui è un ottimo nuotatore. Già che ci siamo, metteteci anche in quanto tempo corro un chilometro. Sono brava a cucinare, scrivete anche questo. Immagino che la fine degli articoli sia il punto in cui si parla delle capacità extracurriculari, per cancellare tutte le cose nauseanti che sono state raccontate sopra.

La sera in cui uscì la notizia feci sedere i miei genitori e raccontai loro che ero stata violentata, dissi loro di non guardare il telegiornale perché era una cosa impressionante, e che la cosa importante era che stavo bene, ero lì con loro e stavo bene. Ma mentre parlavo mia mamma dovette sorreggermi perché non riuscivo più a stare in piedi. Non stavo bene.

La notte dopo avermi violentata, disse che non sapeva come mi chiamassi e che non sarebbe stato in grado di riconoscere la mia faccia. Ha detto che quella sera non avevamo parlato, nessuna parola, avevamo solo ballato e ci eravamo baciati. “Ballato” è un termine carino. Schioccavamo le dita e facevamo delle giravolte, o erano solo dei corpi che si strofinavano in una stanza piena di gente?  Mi chiedo se “baciarsi” non sia stato solo premere sciattamente le nostre facce una contro l’altra. Quando l’investigatore gli chiese se avesse avuto intenzione di portarmi in camera sua, disse di no. E quando gli chiese come eravamo finiti dietro il cassonetto, disse che non lo sapeva. Ammise di aver baciato altre ragazze a quella festa, tra cui mia sorella, che lo respinse. Ammise che voleva fare sesso con qualcuno. Io ero l’antilope ferita del branco, completamente sola e vulnerabile, fisicamente incapace di cavarmela da sola, e per questo scelse me.  A volte penso che se non fossi andata alla festa, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma poi ho capito che invece sarebbe successo comunque, semplicemente a qualcun altro. Eri all’inizio di quattro anni di università in cui avresti incontrato ragazze ubriache e feste, e se questo è stato il tuo modo di cominciare, allora è meglio che tu non abbia continuato. La notte dopo avermi violentata, disse che pensava che mi stesse piacendo perché gli avevo passato la mano sulla schiena. Una mano sulla schiena. Non ha mai detto che gli avevo dato il mio consenso, o che avevamo parlato. Una mano sulla schiena. Ancora una volta grazie ai giornali scoprii che il mio culo e la mia vagina erano completamente scoperti, che i miei seni erano stati palpati, e che dentro di me erano state infilate dita, insieme ad aghi di pino e sporcizia, che la mia pelle nuda e la mia testa strisciavano a terra dietro un cassonetto, mentre uno studente del primo anno in erezione scopava con il mio corpo mezzo nudo e senza conoscenza. Però non me lo ricordo, quindi come faccio a dimostrare che non mi è piaciuto?

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Pensavo che non ci sarebbe mai stato un processo. C’erano dei testimoni, nel mio corpo c’era della terra; lui era scappato, ma l’avevano preso. Cercherà di patteggiare, si scuserà formalmente, e tutti e due andremo avanti. Invece, mi dissero che aveva assunto un avvocato importante, dei periti, e degli investigatori privati che avrebbero cercato dettagli della mia vita privata da poter usare contro di me, delle falle nella mia storia per smentire me e mia sorella, per dimostrare che questa storia della violenza sessuale era in realtà un malinteso. Che avrebbe fatto di tutto per convincere il mondo che era semplicemente poco lucido. Non mi dissero solo che avevo subito una violenza, ma anche che visto che non riuscivo a ricordare, tecnicamente non potevo dimostrare che non fossi consenziente. Questo ha dato un’immagine distorta di me, mi ha danneggiato, e mi ha quasi distrutto. Sentirsi dire che ero stata aggredita e stuprata, all’aperto in modo così sfacciato, ma che ancora non era chiaro se avrebbe contato come violenza, mi fece provare la peggior sensazione di confusione. Ho dovuto lottare per un anno intero per far capire che c’era qualcosa di sbagliato in questa situazione.

Quando mi fu detto di prepararmi alla possibilità che non avremmo vinto, dissi che non potevo prepararmi a una cosa del genere. È stato colpevole fin dal momento in cui mi sono svegliata. Nessuno può eliminare a parole il dolore che mi ha causato. La cosa peggiore di tutte fu quando mi avvertirono che lui avrebbe deciso come erano andate le cose, perché ora sapeva che non mi ricordavo niente. Avrebbe potuto dire quello che voleva, e nessuno avrebbe potuto contestare niente. Ero impotente, non avevo voce in capitolo, ero indifesa. La mia perdita di memoria sarebbe stata usata contro di me. La mia testimonianza era debole e incompleta, e mi fu fatto credere che forse non ero abbastanza per vincere questa causa. Fa davvero male. Il suo avvocato ha continuato a ricordare alla giuria che l’unica persona a cui possiamo credere è Brock, perché lei non si ricorda. Questa sensazione di impotenza fu un trauma.

Invece di prendermi il tempo di guarire, passavo il tempo cercando di ricordare quella notte nei suoi dettagli strazianti, in modo da prepararmi alle domande del suo avvocato, che sarebbero state invasive, aggressive, e pensate per mandarmi fuori strada, per far contraddire me e mia sorella, e formulate in modo da manipolare le mie risposte. Al posto di dirmi Hai notato abrasioni?, il suo avvocato diceva Non hai notato abrasioni, vero?. Era un gioco di strategia, come se fosse possibile portare via il mio valore con l’inganno. Anche se la violenza sessuale era stata evidente, ero a processo, a dover rispondere a domande come queste:

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