Pensione integrata al minimo, ecco come funziona l’aumento dell’assegno se la tua pensione è troppo bassa.
Molti pensionati conoscono bene la sensazione di guardare il cedolino e pensare che quei soldi non basteranno mai a coprire le spese. Non è un’illusione: ci sono assegni che arrivano a malapena a garantire le spese di base e il problema diventa ancora più serio per chi non ha altre entrate. In teoria lo Stato ha previsto un paracadute per chi si ritrova con una pensione troppo bassa, eppure questa misura spesso resta in ombra, quasi dimenticata, e non tutti sanno che può cambiare davvero la quotidianità.

Si tratta dell’integrazione al trattamento minimo, una norma che esiste dal 1983 e che ha una funzione molto semplice: impedire che un pensionato finisca sotto una soglia considerata dignitosa. È uno strumento che negli anni è stato discusso, ritoccato, criticato e difeso, ma che continua a rappresentare una garanzia soprattutto per chi ha avuto carriere discontinue o non ha potuto versare contributi sufficienti per costruire un assegno solido.
Pensione troppo bassa? Ecco come chiedere l’integrazione al minimo
Il meccanismo è chiaro: se la tua pensione è inferiore a un importo stabilito ogni anno, l’INPS interviene per portarla al livello minimo. Nel 2025 la soglia è stata fissata a 603,40 euro al mese e, grazie a una maggiorazione straordinaria voluta dal governo, l’assegno può arrivare a 616,67 euro. Insomma, non si diventa ricchi, ma almeno si respira un po’.
Naturalmente non basta avere una pensione bassa per ottenere l’integrazione, perché ci sono limiti di reddito precisi da rispettare. Se sei single non devi superare circa 7.800 euro l’anno, se sei sposato il tetto sale a poco più di 15.600. Non parliamo di cifre da capogiro, ma l’idea è proprio questa: l’integrazione serve a chi non ha altre entrate rilevanti. Per chi supera di poco queste soglie esiste anche un’integrazione parziale, una sorta di aiutino a metà, che porta l’assegno un po’ più su senza arrivare al livello pieno.

C’è poi una regola particolare che riguarda i pensionati più “storici”, quelli che ricevevano già l’assegno prima del 1994. In quel caso l’INPS considera solo il reddito personale e non quello del coniuge, un vantaggio che può fare la differenza per molte famiglie.
Un aspetto spesso trascurato, ma fondamentale, è che l’integrazione non vale per tutti. Chi ha una pensione calcolata interamente con il sistema contributivo, cioè chi ha cominciato a versare dopo il 1996, resta escluso. Una scelta fatta con la riforma Dini, che ha disegnato un sistema diverso, basato solo sui versamenti effettivi, e che non prevede correttivi di questo tipo.
L’integrazione al minimo non è un bonus una tantum e nemmeno un privilegio concesso a pochi fortunati, ma una misura con un ruolo sociale preciso: evitare che chi ha lavorato, magari poco o in condizioni difficili, si ritrovi con una pensione da fame. Non è la soluzione a tutti i problemi economici, ma per molti rappresenta un sostegno concreto.





