Violenza sulle donne: parole da evitare quando se ne parla

Ecco quali sono le parole che bisogna evitare di pronunciare quando si parla di violenza sulle donne.

(Fonte: GettyImages)

Le parole sono importanti, usarle in modo inappropriato può rivelarsi pericoloso e ferire chi ci ascolta. La questione si fa ancora più delicata se un linguaggio sbagliato viene utilizzato per parlare della violenza contro le donne. Per questo motivo è fondamentale aumentare la consapevolezza  di scrittori e lettori, e aiutarli a trovare le parole giuste per parlare di ogni argomento. In occasione del progetto “Stop alla violenza di genere. Formare per fermare”, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine dei Giornalisti Nazionale, è stato creato un decalogo di stereotipi e luoghi comuni che bisogna assolutamente evitare quando si racconta della violenza di genere.

A proposito si esprime Alessandra Kustermann, direttrice dell’Uoc del pronto soccorso Ostetrico-Ginecologico e del Soccorso Violenza Sessuale e Domestica del Policlinico di Milano: “Le parole possono far seguire alla violenza fisica, che segna per sempre, una violenza psicologica che non si rimargina. Usare le parole giuste fa sì che l’opinione pubblica percepisca il fenomeno per come è davvero”.

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Decalogo di parole proibite quando si parla di violenza sulle donne

L’elenco delle parole vietate è uno strumento molto utile per parlare della violenza di genere in modo appropriato, pensato appositamente per aiutare i mass media e l’opinione pubblica ad affrontare in maniera corretta l’argomento. Nel decalogo sono vietate parole, espressioni e stereotipi quali “amore malato“, “raptus“, “lei lo tradiva“, “se l’è cercata“, “perché non l’ha lasciato prima?“, “era un bravo ragazzo“, “era un padre buono“, “follia“. Sono da evitare anche le informazioni su come la vittima era vestita, i particolari delicati o raccapriccianti dell’accaduto, la descrizione sul tipo di ferite o traumi subiti e, ultima ma non meno importante, la nazionalità dei protagonisti della vicenda.

L’aggressore è raramente straniero, e quando i media sottolineano l’etnia del criminale invece che l’inaccettabilità della violenza subita dalla donna, spostano l’attenzione dei lettori sulla diversità invece che sull’omogeneità dei comportamenti. Alessandra Kustermann descrive così l’importanza di questa regola: “Il problema non è legato alla cultura del singolo autore di una cronaca, ma a una pericolosa concezione dei rapporti di forza tra uomini e donne: mariti e compagni sono nel 70% dei casi i responsabili della violenza. La violenza di genere ci riguarda ed è trasversale a tutte le culture, le classi sociali, le etnie e le religioni. È una forma di razzismo contro le donne che accomuna e non divide”.

Sull’argomento interviene anche Vittoria Doretti, direttrice Uoc Promozione ed Etica della Salute e Responsabile della Rete Regionale Codice Rosa della Regione Toscana: “La lettura morbosa dei fatti finisce per minimizzare un reato gravissimo. I dettagli scabrosi che non aggiungono nulla alla cronaca, spostano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vittima, anziché sulla ferocia dell’aggressore, soffermarsi su come era vestita la vittima o descrivere in dettaglio le ferite è come sottoporre le donne a una seconda violenza”.

In Italia nel 2018 sono state uccise 69 donne. 7 milioni di donne, pur non avendo perso la vita, sono state picchiate, maltrattate o violentate. Dal 2000 a oggi si è consumata una strage con 3.100 vittime.

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