MARCO SIMONCELLI FIDANZATA, parenti e amici: domande e dolore

MORTE SIMONCELLI, SUPERATI I PRIMISSIMO MOMENTI DI SHOCK ARRIVANO GLI INEVITABILI INTERROGATIVI – Se decidi di trascorrere la tua esistenza a duecento all’ora su due ruote forse metti in conto che un giorno potresti fermarti prima del traguardo, che la tua moto si inclinerà troppo per poterla risollevare, che scivolerai sull’asfalto, che quegli stessi avversari che eri felice di esserti lasciato alle spalle non potranno evitare l’impatto con il tuo corpo, che su una moto non ci salirai mai più… che la corsa della tua vita finisce lì! Forse lo metti in conto ma in realtà non ci credi, perchè alla fine a vent’anni ti senti immortale, le cose grandi sono di fronte a te, arriveranno anche se quasi non ci pensi, soprattutto se il tuo oggi è eccezionale, se il tuo oggi è quello di un campione di moto Gp, se il tuo oggi è quello di Marco Simoncelli.

Ecco perchè quando leggo su Facebook, secondo la conclamata moda delle grandi citazioni per onorare i caduti, “meglio cinque minuti su una moto che una vita sprecata” vengo inevitabilmente colta da qualche perplessità: Marco senza dubbio ci credeva ma forse per lui era più un modo per esaltare la meraviglia di sfrecciare su due ruote, di gareggiare con sè stessi prima che con gli altri, di tagliare quel traguardo con il vento nelle orecchie piuttosto che un elogio della vita bruciata in stile bohemien; siamo noi invece oggi che, con la fragilità di chi su questo pianeta ci è rimasto e adesso deve spiegarsi perchè un ragazzo debba morire a ventiquattro anni, tentiamo di scorgere in quella frase una consolazione, la testimonianza che quei “cinque minuti” a Marco siano bastati, la consolazione di poterci dire “se ne è andato facendo ciò che amava”, altra frase agrodolce e logora perchè oramai dobbiamo ripetercela un po’ troppo spesso.

Marco che, come dice il padre, “era un guerriero”, il coraggio per dire la verità forse lo avrebbe avuto: la forza di guardarsi allo specchio e ammettere che non c’è motivo valido su questo triste pianeta per cui un ragazzo debba morire a ventiquattro anni, che lasciare la vita facendo ciò che si ama è una consolazione troppo magra persino per chi il suo lavoro lo ama tanto da dormire accanto alla propria moto, che cercare colpevoli è consolante solo per i meno coraggiosi… Marco avrebbe avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà è descriverla per come è, inspiegabile e a tratti davvero troppo dolorosa, lo avrebbe detto con il sorriso di chi a vent’anni la morte proprio non la mette in conto.

Imparare a guardare questa triste storia per quello che in fondo è non si può negare che sia un procedimento doloroso ma come in tutte le pene della vita anche questa rivela tra tanta amarezza un pizzico di dolce: se infatti si riesce a fissare l’oscurità inevitabilmente quella poca luce che si riesce ad intravedere risulterà ancor più brillante; la luce nella storia di Marco Simoncelli si chiama Paolo Simoncelli; un uomo dai  folti baffi e dalla voce pacata, con il contegno di chi dentro porta un dolore tanto grande che ad esprimerlo proprio non può riuscire. Lui è il papà di Marco, quello che su una moto lo ha visto salire dalla prima all’ultima volta e che oggi si chiede se forse il destino beffardo non poteva essere a sua volta beffato: ma Paolo è un uomo troppo brillante per lasciarsi trascinare nel vortice delle finte spiegazioni, così quando ai microfoni di Matrix si chiede se poteva insegnare al figlio un po’ meno il coraggio e un po’ più la prudenza e lui stesso a darsi la risposta pochi secondi dopo; “quando arriva il tuo momento non importa dove ti trovi […] è stata una tragica fatalità e non è colpa di nessuno anzi, forse la colpa è proprio di Marco che non ha mollato la moto ma del resto lui era un guerriero”. Una verità semplice, senza consolazioni, detta da chi invece di consolazioni ora ne avrebbe più bisogno di tutti: un guerriero però non nasce dal nulla, quella grinta la si porta nel sangue e qualcuno deve pur avertela passata; ecco allora che a darci lezioni di coraggio arriva un padre che a breve dovrà seppellire suo figlio e che nel cuore porta una consapevolezza, ovvero che se nella vita vai a duecento all’ora non vuol dire che la morte sia nei patti ma, se mai dovesse arrivare, sarà meglio continuare a correre invece che fermarsi per cercare carnefici o spiegazioni falsamente consolatorie.

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