Vivere come “la figlia di un serial killer” | Storia di vergogna e paura

Un racconto carico di dolore ma anche di speranzate quello regalato dalla figlia di un celebre serial killer americano in un post.

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Le vite dei genitori rovinano quelle dei figli.

Può sembrare un’affermazione crudele ma, al tempo stesso, in molti sanno che può esser anche un’affermazione vera.

I genitori decidono molto del fato dei loro figli, concorrono nel plasmare il loro carattere, nel definire i loro sogni, la loro morale ma anche le loro paure, le loro debolezze e i loro difetti.

I figli che subiscono abusi avranno più possibilità di diventare a loro volta violenti, chi ha genitori con turbe psichiche spesso le eredità e  chi vive in contesti affettivi poco sani ne svilupperà a sua volta.

Dai genitori sembra dunque che i figli ereditino molto più del colore degli occhi o quello dei capelli, per fortuna ma anche purtroppo.

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Ecco perché tanti di noi vivono sotto una cappa pesante e oppressiva che è incarnata da un ingombrante cognome e dalla storia che con esso ci viene recapitata.

Il fato sembra, in simili circostanze, ineluttabile, un destino a cui i figli non possono scampare, fatto che li porta a vedere la loro vita come segnata e spesso a condurla all’insegna dello conforto o peggio.

C’è però chi a questo fato è riuscito a scampare o, meglio, a mutarlo, trasmodando una vita segnata da un padre pluriomicida in una vita volta ad aiutare il proprio prossimo e, ancor prima, a metter da parte la vergogna per un nome che certo non si è potuto scegliere.

Vivere come la figlia di un serial killer e espiare le sue colpe

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Jenn Carson era solo una bambina quando un incontro sbagliato ha sconvolto la vita di suo padre e, di conseguenza, anche la sua.

Quello che conosceva come un padre amorevole si è trasformato prima in un vero e proprio aguzzino e poi in un serial killer, travolgendo il futuro della piccola Jenn.

Da bambina felice Jenn Carson si è ritrovata ad esser una bambina spaventata, in fuga ma, soprattutto, sola o , nel peggiore dei casi, circondata da persone che la trattavano non come una vittima ma come il carnefice.

Lei però sapeva, sapeva di esser solo l’ennesima vittima della vita del padre e, tenuta stretta questa consapevolezza, ha trasformato la sua vita distrutta in una occasione di nascita, per se stessa e per tante altre persone in difficoltà.

Un percorso complesso che Jenn ha trovato il coraggio di raccontare su HuffPost USA e che noi oggi vogliamo riproporvi.

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“Suzan Barnes era la figlia del direttore esecutivo di un giornale e di una ricca borghese divorziata con due figli adolescenti. Jim Carson, mio padre, era il figlio hippie di un dirigente petrolifero, aveva una moglie e una bambina piccola. La notte in cui si conobbero ad una festa, nel 1978, si allontanarono dalle loro famiglie, andarono a vivere insieme diventando inseparabili fino al loro arresto per omicidio plurimo cinque anni dopo.

Mio padre diventò subito una persona diversa con Suzan. Aveva un nome nuovo, una nuova personalità e una nuova vita. Abbandonando il nome James Clifford Carson per quello di Micheal Bear Carson, non fu più il padre premuroso e amorevole che ricordavo. Mio padre mi faceva le trecce e mi leggeva libri. Micheal Bear mi degnava a stento di uno sguardo.

Una decina di anni dopo, mia madre Lynne chiese il divorzio e cercò di mettere un po’ di distanza tra lei e mio padre, trasferendosi da Phoenix alla provincia di Tucson. All’epoca vivevo con mia madre alla riserva di Tohono O’odham, dove insegnava in un programma di alfabetizzazione. La mia babysitter m’insegnò a fare le tortillas in una cucina all’aperto, mentre le suore della scuola materna m’insegnavano l’alfabeto e mia madre i nomi dei cactus. Dal lunedì al venerdì la mia vita era felice.

D’altra parte, i weekend a casa della mia matrigna erano una specie di film horror. Gli interni della casa di Suzan Scottsdale, dove mio padre si era trasferito per stare con lei, ricordavano una foresta infestata. Al posto di illuminazioni e mobili, tutta la casa era invasa da decine e decine di altissime piante in vaso. Di notte, restavo sveglia in un sacco a pelo sul pavimento, osservando le ombre scure sul muro e pensando al mio ultimo pasto, consumato giorni prima. Oltre a non darmi da mangiare, Suzan era violenta sia sul piano verbale che su quello fisico.

Mi sentivo intrappolata a casa della mia nuova matrigna crudele. Contavo i minuti che mi separavano dalla fine del weekend, quando sarei tornata da mia madre. Una volta chiamai un operatore telefonico e chiesi di mia madre. Provai ad aprire la porta d’ingresso ma non riuscivo a raggiungere la serratura. Tentai di procacciarmi del cibo arrampicandomi sui cassetti della cucina come se fossero gradini, per arrivare al ripiano. Ma soprattutto, cercai di svegliare mio padre e Suzan che, privi di sensi dopo aver assunto degli acidi, giacevano nudi sull’unico mobile di tutta la casa: un enorme letto ad acqua in camera loro.

Dopo la mia ultima visita da mio padre, decisi di dire a mia madre della casa di Suzan. Le dissi degli alberi, della nudità e del frigo vuoto. Le raccontai che Suzan mi aveva grattato la schiena forte – molto forte – con le unghie scheggiate quando avevo chiesto a mio padre di farmi un massaggio prima di andare a letto. Le dissi che Suzan mi aveva definita “un demonio” e diceva che dovevo morire. Mia madre mi sollevò la maglietta e trasalì. Lungo la mia schiena c’erano cinque graffi sanguinolenti. Mi promise che non avrei mai più rivisto Suzan.

Usando i soldi ricavati dalla vendita della casa di Suzan Scottsdale, Micheal e Suzan andarono in Israele, India, Francia e Regno Unito. Mia madre aspettò che i due se ne andassero, poi partimmo anche noi, cercando di perderci nella giungla urbana della California settentrionale – vicino allo zio di mia madre, l’unica persona che le credeva davvero quando diceva: “il mio ex e la sua nuova moglie potrebbero ucciderci”. Era un ex poliziotto che credeva alle donne spaventate.

Mia madre tagliò i ponti con parenti e amici che ignoravano le sue paure o mantenevano contatti con mio padre. Prendevamo in affitto delle stanze e ci spostavamo spesso. Mia madre faceva lavori saltuari. Arrancavamo per pagarci cibo e farmaci e a volte, non avendo un tetto sulla testa, ci ritrovavamo a dormire sui pavimenti e i divani degli amici. Nel frattempo, mia madre lottava contro una grave depressione ma continuava a proteggere me, sua unica figlia.”

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“Dopo essere tornata negli Stati Uniti circa un anno dopo, Suzan ebbe una visione provocata da LSD in una stanza di motel. L’apparizione di un profeta che le svelò una lunga lista di “streghe” sparse in tutto il mondo, che lei e mio padre dovevano uccidere per volere di Dio. La lista includeva il presidente Ronald Reagan e il Governatore Jerry Brown, tra gli altri. Mio padre scrisse la lista così come descritta da Suzan, insieme a un piano dettagliato per uccidere Reagan.

Un escursionista trovò il piano in una zona forestale dove mio padre e Suzan si erano accampati e lo portò alla polizia. Io e mia madre venimmo a sapere delle minacce quando i Servizi Segreti bussarono alla nostra porta, nel 1982.

Un anno dopo, mio padre e Suzan furono colti in flagrante mentre uccidevano uno sconosciuto innocente ai margini di una tangenziale nella Napa County, in California. Dopo l’arresto, il San Francisco Chronicle pubblicò una lettera dal carcere scritta da mio padre, dove si offriva di confessare gli omicidi commessi da lui e Suzan in California, se avessero concesso loro una conferenza stampa. I media li ribattezzarono i “San Francisco Witch Killers”

Mio padre e sua moglie erano ufficialmente dei serial killer. Confessarono tre omicidi in California ed erano sospettati di altri nove delitti fra Stati Uniti e Europa.

Durante il processo, le persone che si spacciavano per amici di mio padre e Suzan dicevano di essere stregoni e testimoniarono come periti di parte. Sostenevano che mio padre e Suzan avevano agito per autodifesa contro “attacchi psichici” mortali. Mio padre, un ebreo, e Suzan, una cristiana, incolpavano il profeta Maometto per i loro crimini. Quel circo di processo si concluse con Suzan che interruppe le arringhe conclusive gridando: “Qual è il mio reato? Essere bella? Essere un’artista?”. Mio padre urlò: “A morte la Regina! Lunga vita all’IRA!”.

In tutto il paese, i giornali titolavano “Il processo alle streghe di San Francisco”. Mio padre e Suzan furono giudicati colpevoli di tre omicidi e vennero condannati a tre ergastoli ciascuno.

Mia madre, temendo che avrei saputo del processo dai media, decise di raccontarmi quello che era successo. Venne a prendermi a scuola un pomeriggio e sulla strada di casa mi disse: “Papà fa del male alle persone, e adesso deve andare in prigione così non farà più del male a nessuno.” Le domandai se quelle persone erano morte e se le persone morte avevano una mamma. Lei annuì dopo ogni domanda e poi tornammo a casa senza dire una parola. Ci limitammo a tenerci per mano e a piangere.”

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“Diversi mesi dopo, trovai un mucchio di ritagli di giornale nella cassettiera in camera di mia madre e scoprii la reale atrocità degli omicidi. Ricordo che lessi che mio padre e sua moglie avevano picchiato una ragazza con una padella e bruciato il corpo di un ragazzo. Ricordo che cercavo di scandire parole che non conoscevo come “randellato” e “decapitato”. Poco dopo, iniziò la mia lunga battaglia con gli incubi.

Cominciai anche a temere per la mia incolumità. Se mio padre poteva uccidere delle persone allora, dedussi, chiunque poteva essere un assassino. Iniziai a barricare la porta della mia stanza con i mobili quando rientravo da scuola o prima di andare a letto. Iniziai anche a dormire con forbici e coltelli sotto il cuscino. Ero talmente traumatizzata che a un certo punto provai ad affogarmi nella vasca da bagno e feci incetta di pillole dal nostro armadietto delle medicine con l’intenzione di mettere fine alla mia vita. Prima ancora di compiere dieci anni, ero una ragazzina con tendenze suicide e un padre assassino.

Iniziai a chiedermi se avrei perso la testa e iniziato a uccidere la gente, anche io. Mi chiedevo se avevo i geni del mostro. Inoltre lottavo contro i pregiudizi esterni. I peggiori erano quelli dei parenti che mi vedevano come un ostacolo che impediva loro di cancellare mio padre. Mia nonna mi presentava agli amici come la sua pronipote. Due membri della famiglia mi dissero di tenere segreti gli omicidi altrimenti “nessuno mi avrebbe mai sposata”. Un parente mi disse persino: “Guarda che hai combinato alle nostre vite, piccola stronzetta egoista”. Avevo nove anni.

Da adolescente, dopo aver tagliato i ponti con i parenti nocivi, furono i fidanzati a riservarmi lo stesso trattamento. Uno raccontò ai genitori che mio padre era morto in un incidente stradale. Fui costretta a stare al gioco. Un altro fidanzato, con cui facevo sul serio, mi disse che aveva intenzione di sposarmi, ma poi decise di rompere con me perché non voleva che i suoi figli avessero un serial killer per nonno.”

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“Col tempo, iniziai a eliminare chiunque volesse privarmi della dignità. Compresi a pieno perché quasi tutti i figli dei serial killer cambiano il proprio nome o vivono nascosti, ma decisi che io non mi sarei più nascosta. Non mi sarei allontanata per far stare più tranquilli gli altri.

Uno dei figli di Charles Manson si è ucciso, come hanno fatto molti figli di assassini tristemente noti. Io ho deciso di vivere. Richiesi una cura per i miei problemi di salute mentale come avrei fatto per una malattia fisica cronica, senza stigmatizzazioni. Non mi vergogno di avere l’asma – allora perché dovrei vergognarmi della depressione e di un complesso disturbo da stress post-traumatico? Mi meritavo un aiuto.

Decisi anche di aiutare gli altri. Ho lavorato con bambini in difficoltà per quasi vent’anni nelle scuole pubbliche, come insegnante e consulente. Sfruttando competenze ed esperienza, sono diventata consulente difensore dei bambini che hanno un genitore detenuto in America, uno su quaranta.

Da quando sono uscita allo scoperto come “la figlia di un serial killer” nel 2007, ho avuto anche l’opportunità di diventare una risorsa per le famiglie dei criminali violenti e delle loro vittime. Nel 2015, ho riunito le famiglie delle vittime di mio padre quando lui e Suzan hanno ottenuto, inaspettatamente, l’eleggibilità per la libertà condizionale. Insieme, ci siamo opposti alla condizionale con una petizione, una campagna fatta di lettere di protesta, incursioni nei media e la nostra presenza all’udienza, e mio padre e Suzan sono ancora in prigione. Abbiamo intenzione di fare lo stesso alla prossima udienza di mio padre, nel 2020. Suzan potrà richiedere la libertà condizionale nel 2030 – avrà novant’anni.

Non è stata una vita facile, la mia, ma aiutando gli altri ho trovato la pace. Guardandomi indietro, mi rendo conto che in principio volevo aiutare gli altri per riempire di buone azioni un “bilancio” invisibile, nella speranza di rimediare al terrore e ai traumi causati da mio padre e Suzan. Ma so che non posso espiare i peccati di mio padre e non posso riportare in vita quelle bellissime vittime innocenti. Posso solo vivere la mia vita nel modo migliore che conosco mentre cerco di diffondere nel mondo tutta la bontà di cui sono capace.”

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Una vita difficile quella di Jenn Carson ma, al tempo stesso, un esempio di come anche dai baratri più profondi sia possibile riemergere, di come i tiri mancini di un’intera esistenza possano trasformarsi in ostacoli superabili.

Molti che hanno tentato il medesimo percorso di Jenn non hanno trionfato, sono caduti lungo la strada schiacciati da un peso eccessivo.

Il successo di una può però bastare per donare la speranza a molti e farci credere che anche le vite più complesse possano essere vissute al meglio e i più grande svantaggi mutati in vantaggi. Jennifer ci ha insegnato speranza e caparbietà.

Fonte: huffPost.it

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