Paolo Borsellino | Il discorso in memoria di Giovanni Falcone

Uno degli ultimi discorsi pubblici pronunciati da Paolo Borsellino fu in onore dell’amico e collega Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992.

falcone borsellino foto
Foto da Instagram @anticafriggitoria_lopes

Capaci, via D’Amelio, luoghi che gli italiani ignoravano fino al 1992 e che oggi sono divenuti tristemente famosi, sinonimo di morte ma, paradossalmente, anche di vita.

Già perché uomini come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone hanno cambiato la nostra percezione di ciò che è vita e di ciò che è morte. Ci hanno insegnato che si può rimanere in vita anche morendo e che, purtroppo, si può anche vivere essendo morti dentro.

Che cosa fa la differenza? La morale, i valori che determinano la qualità della nostra vita. In pratica ciò in cui crediamo e, soprattutto, ciò per cui lottiamo.

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Paolo Borsellino e Giovanni Falcone hanno lottato per la legalità, per una Sicilia e un’Italia senza compromessi, senza lo strapotere delle famiglie di Cosa Nostra, un Paese in cui ogni singolo cittadino trovasse la forza di dire “no”.

Hanno trionfato? Be’, certo delinquenza e criminalità organizzata non sono spariti ma, senza dubio, da quel 1992 sono molti gli animi degli italiani che hanno abbracciato una nuova idea di morale.

Un piccolo passo, dunque, ma un passo che ha fatto la differenza.

Ecco perché anche quest’anno, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, vogliamo ricordare questi due grandi uomini, grandi italiani, attraverso le immrotali parole di uno di loro.

Il discorso di Borsellino in memoria di Falcone

Giovanni Falcone scorta
Photo credit should read GERARD FOUET/AFP via Getty Images

Le parole che seguono furono pronunciate nella chiesa di Sant’Ernesto, a Palermo il 23 giugno 1992.

Giovanni Falcone era stato ucciso un mese prima, il 23 maggio 1992, in quella che tutti oggi ricordano come la strage di Capaci. Oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Paolo Borsellino sarebbe morto poche settimane dopo, il 19 luglio del 1992, in un’altra strage dal nome famoso: la strage di via D’Amelio. Con lui la mafia uccise anche i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Le parole pronunciate da Borsellino in memoria del collega e amico rimangono ancora oggi tra le più celebri del nostro Paese e tra le più attuali.

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Il testo è un estratto da:  Le ultime parole di Falcone e Borsellino; Prefazione di Roberto Scarpinato. A cura di Antonella Mascali . Ed. Chiarelettere, Milano 2012

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.
Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.
Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta [il pentito Tommaso Buscetta, ] egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono lavera forza di essa.
Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per invocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro. Per poter continuare a «dare». Per poter continuare ad «amare». Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Menzogna!”

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“Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi.

La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio. Dal sacrificio della sua donna. Dal sacrificio della sua scorta.
Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche.
Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro. Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia.
Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

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Quel «la gente fa il tifo per noi», così come la “perfetta coscienza” di Falcone, di sua moglie e delle sua scorta echeggiano ancora nelle nostre menti e nei nostri cuori: parole immortali, parole da non dimenticare.

falcone borsellino murales
Foto da Instagram @dannir89

A 28 anni dalla strage di Capaci appare doveroso dare nuovo eco a simili parole e, ancor più doveroso, dovrebbe esser farle nostre, lasciarle penetrare nei nostri cuori e nelle nostre menti.

Dimostriamo “a noi stessi e al mondo che Falcone” e Borsellino sono ancora vivi:

Fonte: globalist.it

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