Coronavirus | Luigi racconta è vivere con un casco-respiratorio

Sul sito di Repubblica edizione di Parma compare la lettera di Luigi, ricoverato per Coronavirus e pronto a raccontare la sua esperienza

coronavirus ricovero
Photo by Marco Di Lauro/Getty Images

Toccare con mano. Certe volte nessuno vorrebbe ma purtroppo può esser anche l’unica via percorribile per risultare veramente efficaci.

Troppi dettagli, troppe sensazioni sfuggono quando dalle situazioni non si è toccati in prima persona e se non si capisce agire correttamente può risultare difficile.

Il Coronavirus ha reso tutto ciò più che evidente. Ci sembrava una banale influenza e ora ci sentiamo in un tunnel senza via d’uscita; i giovani credevano di essere immuni e si sono poi ritrovati attaccati a un respiratore.

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Come altre volte abbiamo pensato “ma a noi non può succedere” ed eccoci ora incastrati in una quarantena sempre più lunga e che ci va sempre più stretta.

Comprendere a fondo il Coronavirus e tutte le sue implicazioni non è facile. Nonostante il tempo trascorso si rischia ancora di sentirlo troppo lontano da noi: chi riesce ad immaginarsi attaccato a un respiratore o costretto a dire addio a un proprio caro senza nemmeno un funerale?

Le testimonianze dirette si trasformano allora in uno strumento importante e potente: nessuno si augura ovviamente di “toccare con mano” veramente in questo caso ma ascoltare le parole, quelle vere, senza filtri, di chi ogni giorno entra a contatto con il mondo del Covid-19 è quanto di più persuasivo si possa avere.

Ecco perché diamo spazio ai post degli infermieri, alle lettere di chi ha perso un proprio caro o, come oggi, alle parole di chi il Coronavirus lo ha vissuto sulla propria pelle.

La storia di oggi, la storia di Luigi, è proprio questo: il racconto di come è vivere ricoverati per il Coronavirus.

Coronavirus, vi racconto come è viverlo

coronavirus casco
Photo by Marco Di Lauro/Getty Images

Si chiama Luigi e il 9 marzo è arrivato presso l’ospedale Maggiore di Parma per sospetto Coronavirus.

Da allora la lotta di Luigi è stata costellata di difficoltà senza fine: ci sono stati dei passi avanti, passi indietro, momenti di speranza, momenti di totale sconforto e tutto ciò che il ventaglio dei sentimenti umani può contemplare.

Un percorso complesso, un percorso da raccontare. Non solo per volontà di noi giornalisti, che di storie viviamo, ma per volontà dello stesso Luigi, convinto che raccontare serva.

Raccontare può infatti far intuire, far capire almeno in parte i rischi reali che questo virus può far correre, dare un motivo in più per esser scrupolosi nel seguire le regole, quelle che ci vanno strette, che ci sembra di non poter più tollerare.

Già perché un casco-respiratore va ben più stretto ed è di gran lunga meno tollerabile. A raccontarlo è Luigi che, alla fine, stato addirittura costretto a farci amicizia.

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“Era venerdì 28 febbraio e avevo i brividi e la febbre. Passano i giorni, febbre e tosse continuano. Mi decido e chiamo il dottore: ‘Non preoccuparti é un malessere di stagione. Prendi queste medicine’. Passavano i giorni.

Il 4 marzo il dottore viene a visitarmi a casa: ‘Ti garantisco che non hai il Coronavirus. I polmoni sono puliti, prendi queste altre medicine e sarà tutto ok’. Passano altri giorni. Comincia a mancarmi il respiro. La febbre non smette. Non riesco più a dormire. Mal di schiena, diarrea. Chiamo il dottore: ‘Se manca il respiro devi andare all’ospedale’.

Lunedì 9 marzo, arriva l’ambulanza, scende una ragazza con lo strumento per misurare l’ossigeno, lo mette sul mio dito e dice: ‘Sì è meglio andare. Se non ci fosse necessità non la manderemmo perché l’ospedale è intasato in questo periodo’.

Arriviamo all’ospedale dove hanno preparato una zona dedicata molto provvisoria, spioviggina e io sono a cavallo della porta: mi bagno e ho freddo. Le infermiere sono alle prese con procedure nuove e si vede che sono in difficoltà. Aspetto, barcollo e alla fine mi fanno entrare. Sembra un film. Gente dappertutto che si lamenta. Un dottore mi visita, poi mi fa accompagnare su una seggiola con bombola di ossigeno ed occhialini.

Aspetto. Non so quanto. Barcollo. Chiamo i dottori e a questo punto mi ricoverano. Ormai è sera tardi. Sono in un primo reparto dove cercano di capire che patologia si ha. Mi mettono subito la maschera più potente perché sono in carenza di ossigeno. Il giorno dopo mi fanno il tampone. Sono sempre più in carenza di ossigeno e mi mettono il casco respiratore. Il giorno successivo con esito positivo mi spostano in un altro reparto specializzato per il Covid-19.”

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“Il casco, una cosa tanto infernale non la potevano inventare. Hai la testa dentro questo ‘coso’ che fa tenuta intorno al collo stringendolo, senti una pressione come quando vai in moto a bocca aperta, l’orecchio sinistro mi si chiude, sento il rumore alto delle ventole. Ho senso di soffocamento, paura. Non sono capace di abituarmi a respirare così, è contro natura.

Fanno male i muscoli dei polmoni. Ho il collo che si appoggia su un disco duro e fa male. Non puoi toccarti, non puoi girare la schiena. Dopo poco tempo non ne puoi più. Ti senti come un fuscello in mezzo al mare in tempesta e la testa non ragiona più in modo normale, entri in una realtà deformata. Mi fanno la morfina. Due volte. Ma niente non ci riesco.

Chiamo i dottori e mi dicono che devo portarlo, non ci sono alternative. Non ne posso più. Scoppiano i polmoni. Li chiami e davanti a loro ti slacci tutto e te lo togli. Ma manca l’aria e loro mi sgridano. Non so più come fare. Mi dicono che se ti rifiuti di portarlo dovranno trasferirti in terapia intensiva. Mi crolla il mondo addosso, ed è lì, in quel momento, che il tuo cervello mi dice ‘devi trovare un modo per portare il casco’.

Elaboro velocemente e chiedo ai dottori di avere qualcuno che si metta vicino a me, che conosca questo marchingegno in modo da regolarlo meglio. Mi ascoltano ed arriva una persona che, ascoltandomi, regola meglio la macchina.

Passo la notte un po’ meglio. Al mattino però non ne posso più, 6 ore consecutive sono troppe. Non ci riesco.

Parlo con i medici e gli dico che posso arrivare al massimo a 4 ore ma non 6. Poi faccio una pausa di 1 ora ed ancora rimetto il casco. Si consultano e provano a insistere per mantenere le 6 ore di casco. Io insisto e concordiamo cicli di 4 ore con la promessa di indossarlo almeno 4 o 5 ore al giorno. È difficile. Molto difficile, anche perché la bocca ti si asciuga al punto che dalle labbra si staccano le pellicine. Se la chiudi si incolla tutto. Mi dicono che devo bere poco perché ho le braccia talmente gonfie che sembrano esplodere. Quando chiamo per farmi portare da bere, mi passano una cannuccia da un buchino troppo piccolo e faccio una fatica incredibile.

Riesco a fare i cicli di 4 ore. Ci riesco ed ho anche imparato a bere da solo senza dovere chiamare nessuno (bastava tirare la membrana sotto con la mano e far passare agevolmente la cannuccia). Mi vedono e si mettono a ridere perché nessuno ci aveva mai pensato. Riesco a mantenere le promesse. Sono io che chiamo gli infermieri quando finisce la pausa.”

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“Loro sono sorpresi da questa mia costanza e convengono di lasciarmi andare avanti così. Ma in questo periodo che é durato più di due settimane ho visto tre persone vicino a me non riuscire a portare il casco e dopo varie crisi, due sono stati trasferiti in terapia intensiva ed uno poveretto, Mario, lo hanno trovato morto alla mattina. Riposi in pace.

Mi sono fatto amico il casco. Ho fatto in modo di volergli bene e mi dicevo in continuazione che lui mi avrebbe fatto guarire. Me lo ripetevo ad ogni respiro. Ma l’occhio era sempre sull’orologio che non arrivava mai alle 4 ore. Quando sei lì dentro la realtà si deforma e ti abitui anche a questo. I medici sono sorpresi dal mio modo di affrontare le cose, ma vedono i risultati positivi. Piano piano miglioro. Lo si vede dalla Co2 nel sangue attraverso un prelievo dolorosissimo dall’arteria. Inizio a vedere una lucina in fondo al tunnel.

La dottoressa mi dice che é soddisfatta e che io potrei essere il terzo al quale potrebbero togliere il casco con successo. Le altre due persone lo avevano portato solo per qualche giorno.

Vado avanti con il casco fino a quando un bel giorno la dottoressa mi dice: “Luigi andiamo bene e oggi proviamo a togliere il casco”. Era il 26 marzo.

Mi si é aperto un mondo, ero psicologicamente carico in modo fuori dal comune. La dottoressa parlava in modo orgoglioso di me per essere riuscito a mantenere il casco per così tanto tempo.”

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“Si inizia il percorso di riduzione progressiva dell’ossigeno. Tra alti e bassi il percorso é andato bene, con diversi cambi di mascherine e di percentuali e quantità aria/ossigeno sempre monitorato giornalmente da quel prelievo doloroso in arteria per vedere la Co2.

Sembra andare fin troppo bene e si apre la possibilità di rientrare a casa per Pasqua o Pasquetta. Sarebbe stupendo!

Nel frattempo provo ad alzarmi dal letto ma é tutto difficile. Vado subito in affanno. Non ci riesco. L’equilibrio non ne vuole sapere. Provo la sensazione di quando giri attorno ad un palo veloce e poi ti lasci andare. Cado. Non ho forze sufficienti.

Ieri é arrivato il risultato dell’ultimo tampone, sono ancora positivo. E il dottore, visto che ero un po’ in affanno, mi ha aumentato leggermente l’ossigeno. Subito mi sono po’ demoralizzato, ma poi ho pensato che ho raggiunto risultati stupendi e ci sta che verso la fine ci sia un calo.

Una notte quando stavo veramente male ed ero sotto respiratore, venne un’infermiera. Giovane e sicuramente carina (qui sono tutte coperte fino agli occhi). Si é seduta sul mio letto e si é messa a piangere. Poverina forse aveva bisogno di sfogarsi. E io le ho assicurato che sarebbe andato tutto bene. Da quella volta é diventata il mio angelo custode e mi ha dato il suo numero di telefono. Una volta che tutto questo sarà finito, un giorno, la voglio incontrare e conoscere.

Oggi è Pasqua 2020, questa Pasqua é sicuramente la più bella della mia vita, sia per me che per i miei famigliari che hanno sofferto pregando che tutto andasse bene. Mi sento proprio resuscitato a nuova vita. Mi sento come se avessi trovato un jolly nel mazzo che mi ha dato una nuova possibilità di vita. Mi sento come nato per la seconda volta.

Insomma, sono felice! Penso che vivrò la mia rimanente vita con concetti diversi. Forse più semplici, ma più emozionali.

Auguro a tutti di cercare di ascoltare e capire le altre persone prima di parlare. Il mondo potrebbe migliorare !”.

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Foto da Pixabay 

Questa è stata dunque la lotta contro il Coronavirus di Luigi e, probabilmente, di molti altri.

Questi i rischi che si corrono, i momenti di vita reale che mai vorremmo vivere.

Tante emozioni, paure, momenti profondamente umani ma anche di profonda sofferenza e sconforto. I momenti che dobbiamo conoscere per lottare ancora più accanitamente, per fare la nostra parte e far sì che sempre meno testimonianze siano necessaria, che sempre meno testimonianze abbiano occasione di nascere.

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