Cinema | “Figli”, il riscatto della periferia con Mattia Torre

“Figli”, l’ultimo lavoro di Mattia Torre, racconta anche determinate zone di Roma poco rappresentate che però racchiudono l’essenza di comunità forse un po’ persa nel recente passato. 

"Figli", l'epopea familiare di Mattia Torre
“Figli”, l’epopea familiare di Mattia Torre

“Figli” di Mattia Torre è l’ultimo lavoro (postumo) scritto e composto dall’autore, regista teatrale cinematografico e televisivo che racchiude tutto il suo estro e la sua capacità di riassumere la realtà in un tratto, in un segno distintivo, dentro uno sguardo: un’esclamazione, un’espressione, un’uscita sgangherata. Torre era – e resta – un riequilibratore del caos. Capace di trovare un sentiero laddove non ce n’erano.

Così “Figli”, con garbo e grazia, ci riporta dentro gli equilibri precari di una famiglia unita e complicata – rappresentata magistralmente da Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea – alla ricerca costante del senso di comunità un po’ smarrito entro le mura della Città Eterna, colmato e colmabile (forse) con l’arrivo del secondo figlio.

“Figli”, Mattia Torre riporta al cinema la periferia

Testaccio torna al cinema con "Figli"
Testaccio torna al cinema con “Figli”

Una maternità, una nuova vita che nasce magari sconvolge l’esistenza ma solo per sottolineare quanto, a volte, serva una scossa per capire le nostre radici: il nostro posto nel mondo. Nel nuovo (e ultimo) lavoro di Torre c’è tutta quella follia creativa che permette di concepire quel senso di appartenenza congegnale solo a certi luoghi, familiare a determinate essenze e suggestioni.

“Figli”, fra le altre cose, dimostra quanto sia possibile narrare il riscatto delle periferie: quei quartieri e rioni periferici che sono a Roma, ma compongono il resto d’Italia regione per regione, ove si conserva ancora quella genuinità (troppe volte scambiata per ignoranza) che dà adito ad una schiettezza latente che, forse, abbiamo un po’ perso.

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L’evoluzione culturale dovrebbe favorire l’abbattimento di barriere e tabù: Torre lo fa attraverso un ulteriore annientamento della quarta parete, riportandoci (metaforicamente e concettualmente) in posti frequentati ma sconosciuti agli occhi distratti dei più: ci fa riappropriare del significato di piazza – talvolta esageratamente accostata alla politica – come ricettacolo di storie, vizi e virtù di un periodo socioculturale.

Torre, come tanti altri suoi predecessori, scandaglia l’ovvio che sotto certi aspetti diventa indicibile e incontrollabile: siamo su una perenne giostra che cavalca ed esplora il malinconico per poi portarci dentro la comicità sincera e leggermente assurda che consegue l’annientamento e svisceramento degli stereotipi in una risata amara ma consapevole che la strada da fare è ancora molta.

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“Figli” può essere anche inteso come un trattato sulla riqualificazione (artistica e sociale) di universi risoluti che si celano dietro la diffidenza comune che rende certi luoghi più ‘intoccabili’ di altri. Torre ha saputo (addirittura) ritrovare civiltà laddove c’era solo diffidenza. L’ha fatto con naturalezza, la stessa che aveva – in parte – Pasolini nel descrivere “Accattone” o Fellini nel tratteggiare Guido nel corso di “Otto e Mezzo”. Senza stare a scomodare colleghi più illustri, tipo Michelangelo Antonioni, che ne “Il grido” offre una vera e propria epopea errante. La medesima cosa fa Torre agli inizi del 2020, mutando la negatività malinconica in eterna resilienza al cospetto della quotidianità imprevedibile e, persino, un pizzico romantica. Questo è realismo 3.0 agevolato dalla riattulizzazione di ‘cartoline’ dimenticate dal passato, che fanno da cornice al pianto sonoro di un bimbo che nasce, perfetto rifugio di rimorsi che prestano il fianco all’anticamera della felicità.

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