LIBRI: ‘Venezia e il ghetto’

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Martedì 29 marzo, alle ore 17 presso l’Ateneo Veneto – Campo San Fantin 1897 – Venezia si terrà la presentazione del libro di Donatella Calabi Venezia e il ghetto (Bollati Boringhieri). Intervengono Dario Disegni, Stefano Jesurum e Paolo Rumiz. Introducono Guido Zucconi e Paolo Gnignati. Sarà presente l’autrice.

Il 29 marzo 1516 il Senato della Serenissima Repubblica di Venezia deliberò che «per ovviar a tanti desordeni et inconvenienti» gli ebrei di diverse contrade cittadine si trasferissero «uniti» (cioè tutti) nella corte di case site in Ghetto, presso San Girolamo. Il Senato ordinò quell’anno che tutte le case site in Ghetto Novo fossero immediatamente vuotate, e che i giudei vi potessero abitare pagando un affitto maggiorato di un terzo rispetto a quello che i proprietari chiedevano agli affittuari cristiani. Nasceva così il primo «recinto degli ebrei».

«Ghetto»: la parola stessa nasce in questo tempo e in questo luogo. Si trattava in origine del geto de rame, il luogo in cui venivano riversati («gettati», appunto) gli scarti della lavorazione delle fonderie di rame presenti nella zona. Nel corso dei secoli, e su tutti i continenti, questa parola veneziana sarebbe presto diventata sinonimo di segregazione. Nato come misura di confinamento, il ghetto diviene in breve tempo un luogo effervescente e cosmopolita, che accoglie gli ebrei provenienti dai luoghi più diversi, oltre a rappresentare uno dei centri di commercio fondamentali della Repubblica veneziana. Col tempo si espande, e al nucleo originario del Ghetto Nuovo vengono incorporati prima il Ghetto Vecchio e poi il Ghetto Nuovissimo. La struttura architettonica delle sue case, inusuale per Venezia – con i suoi caseggiati stranamente sviluppati in altezza per far posto al numero crescente di abitanti confinati nel luogo – si intreccia alla vicenda storica, decisamente centrale per l’Italia e per l’Europa. Nel ghetto nascono diverse attività commerciali, ma è il prestito a pegno a rendere il luogo molto frequentato anche dai «gentili», compresi gli alti funzionari della Repubblica, che ricorrono spesso agli ebrei per finanziare le loro imprese commerciali e belliche. Qui sorgono infatti i banchi di pegno (sono tre: il «rosso» – la cui insegna è ancora oggi visibile –, il «verde» e il «nero») dai quali di fatto passerà buona parte del prestito di denaro della potenza lagunare. Nel ghetto non mancano tuttavia le professioni liberali e la cultura. Avvalendosi di questa variegata comunità ebraica, ad esempio, l’editore Bomberg potrà comporre la prima edizione a stampa del Talmud, rendendo Venezia una delle capitali culturali indiscusse del mondo ebraico e non solo. L’11 luglio 1797 le truppe napoleoniche entrano in Campo di Ghetto, bruciano le porte simbolo della segregazione e aprono il quartiere alla città. Gli ebrei non sono più obbligati a mostrare sugli abiti un segno della loro religione, come era avvenuto fino ad allora. Le cose però non cambiano radicalmente né rapidamente. Il ghetto resta attivo a lungo, ancora centro vitale della vita ebraica, benché gli ebrei col tempo si insedieranno come gli altri cittadini su tutta la città. E siamo al presente. Il Ghetto veneziano è una delle principali mete turistiche in Laguna. Il Cinquecentenario della sua creazione, che cade quest’anno, è destinato a dargli ancora maggiore visibilità, con un’importante mostra a Palazzo Ducale, di cui questo libro costituisce il testo fondante.

La parola «ghetto» è oggi utilizzata continuamente sui quotidiani e dai media, spesso in riferimento a casi di «isolamento» fisico anche molto differenti fra loro, oltre che lontani geograficamente e politicamente. Ripensare oggi, cinquecento anni dopo la sua istituzione, alla lunga storia del primo ghetto – quello veneziano –, alle sue molte contraddizioni, alla sua complessità, al significato di «segregazione» che questo termine è andato man mano assumendo e non ha mai perso (neppure in tempi a noi più vicini) ci pare necessario; e ci costringe a riflettere, per converso, al «cosmopolitismo» che a questa vicenda è strettamente legato. Conoscerla meglio ci porta alla consapevolezza che l’identità ebraica è parte integrante dell’identità europea. Farlo ora, a ventisette anni dalla caduta del muro di Berlino (1889), in un continente libero e riunificato ma incapace di governare le nuove ondate di paura innescate da una quantità abnorme di migranti, può forse contribuire a cogliere la sfida che l’Europa ha di fronte a sé: quella di evitare una nuova stagione di muri di cemento e di barriere di filo spinato, quella di ovviare al pericolo di un mondo costituito da «un arcipelago di ghetti».

Donatella Calabi

Ha insegnato Storia della città e del territorio all’Università IUAV di Venezia (1974-2014). È stata Directeur d’études invité all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, Visiting Professor dell’Università Cattolica di Lovanio, della British Academy di Londra, Honorary Fellow dell’University of Leicester; ha insegnato e tenuto corsi a Harvard, al MIT, all’Université de Paris VIII, all’Ecole de Architecture de Paris la Villette, all’Institut Français d’Urbanisme, all’Escuela Tecnica Superior de Arquitectura de Madrid, alle università di Sâo Paulo e di Sâo Carlos del Brasile e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Culturelles de Tokyo. Presidente onorario della European Association of Urban Historians (EAUH) e dell’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU), dirige la collana «Storia della città» edita da Laterza ed è membro del board editoriale della rivista «Planning Perspectives» e condirettore di «Città e storia». Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Rialto. Le fabbriche e il ponte: 1514-1591 (con P. Morachiello, 1987); La città degli ebrei (con E. Concina e U. Camerino, 1991, 1996), Les Étrangers dans la ville (con J. Bottin, 1999); Storia dell’urbanistica europea (2000, 2004); La città del primo Rinascimento (2001); Storia della città. Età moderna (2001); Storia della città. Età contemporanea (2005); con S.T. Christensen ha curato Cities and cultural Exchanges, 1400-1700 (2007).

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