“Jurassic World”: recensione

Italy_O&R_Online_1-ShtOggi, la redazione di CheDonna per la sezione Cinema, vi propone la recensione del film Jurassic World.

A quattordici anni dall’ingiustamente poco elogiato “Jurassic park III” (2001) di Joe Johnston, la prima immagine che vediamo, già nel corso dei titoli di testa, è quella di un uovo che si schiude.

Segno immediato della rinascita di un franchise che, però, vede stavolta Steven Spielberg – autore dell’acclamato capostipite “Jurassic park” (1993) e del suo pessimo sequel “Il mondo perduto – Jurassic park” (1997) – relegato al solo ruolo di produttore esecutivo; in quanto è il Colin Trevorrow principalmente proveniente dai documentari e dalla televisione a trovarsi al timone di regia di questa quarta immersione tra i giganteschi antenati dei rettili magnificamente concepiti in digitale, che, prima girata in tre dimensioni, appare più come un reboot che in qualità di vera e propria continuazione.

Del resto, sebbene il plot faccia riferimento alla sciagura trovatasi al centro del capitolo che ha aperto la tetralogia, non vi è alcuna traccia dei personaggi storici della serie e fa da scenografia un parco tutto nuovo costruito sui resti dell’originale; nel quale troviamo l’Owen Grady impegnato a svolgere ricerche comportamentali sui velociraptor, interpretato dal Chris Pratt di “Guardiani della galassia” (2014) e affiancato dall’amico Barry alias Omar Sy, il capo della sicurezza del posto Vic Hoskins, cui concede anima e corpo l’immenso Vincent D’Onofrio di “Full metal jacket” (1987), e la responsabile delle operazioni Claire Dearing, con le fattezze della figlia d’arte Bryce Dallas Howard.

E, mentre si parla del pericoloso Indominus Rex, ibrido ottenuto combinando i DNA di diverse specie di dinosauri, è l’arrivo dei due giovanissimi nipoti della donna a rendere decisamente più complicata la situazione; soprattutto dopo che, accidentalmente lasciati soli, si trovano a dover lottare per non finire tra le fauci della creatura, riuscita a liberarsi scatenando il panico.

Creatura che ricorda, in un certo senso, il Godzilla visto nell’omonima pellicola di Roland Emmerich e la cui entrata in scena, però, avviene soltanto dopo circa metà delle oltre due ore di visione mirate in maniera evidente a ribadire che la natura non può essere annientata dalla genetica.

Oltre due ore di visione che, tra introduzione di ologrammi e riproposizione degli storici temi musicali della saga, se inizialmente non faticano a lasciar avvertire uno script volto a rappresentare esclusivamente l’esile pretesto – complice la mancanza totale di approfondimento dei protagonisti – per poter mettere in piedi l’ennesimo blockbuster a stelle e strisce finalizzato a garantire facile intrattenimento a suon di elaborati effetti speciali, valgono non poco l’acquisto del biglietto man mano che i fotogrammi avanzano.

Perché, tirando in ballo anche il marino Mosasaur, il secondo tempo dell’operazione fa abbondanza di scintille sguazzando tra un violento attacco da parte dei pterodattili che non può fare a meno di richiamare alla memoria “Gli uccelli” (1963) di Alfred Hitchcock e uno scontro conclusivo in aria di moderna rivisitazione di quelli visti ne “La vendetta di Gwangi” (1969) di Jim O’Connolly e in altri vecchi cult riguardanti i colossi preistorici.

Quindi, pur senza spingere a gridare al capolavoro, ci troviamo tutt’altro che dinanzi a uno dei peggiori episodi di una discreta epopea filmica di cui, da sempre, conquistano più le immagini che le storie raccontate.

Francesco Lomuscio

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