CINEMA: Intervista a Vincent Cassel, interprete del film “La bella e la bestia”

12778_673242996047728_1465901341_nCome mai tutto questo tempo per lavorare di nuovo con Christophe Gans dopo “Il patto dei lupi”?

“Il patto dei lupi” è stato una bella esperienza. Adoravo il personaggio che mi aveva assegnato Christophe e, in seguito, abbiamo tentato di lavorare assieme più volte. La prima volta con “Bob Morane”, su cui abbiamo lavorato per molto tempo, con la collaborazione di Roger Avary. Il film era sul punto di realizzarsi, quando è scoppiata un’epidemia di SARS (una parte delle riprese avrebbe dovuto svolgersi in Cina, ndr) contemporaneamente alla riorganizzazione di Canal+. E finì cosi! Dopo, c’è stato il remake di un film francese in bianco e nero che doveva farsi con Dupontel e me, poi “Il cavaliere svedese”, che è tutt’ora in corso di realizzazione, e “Fantomas”. Ogni volta qualche cosa ci ha impedito di proseguire, finché tutto a un tratto è arrivato il progetto di “La Bella e la Bestia”. Credo che tutti condividessero la stessa voglia che avevamo noi di farlo insieme. Era evidente. L’idea è venuta a Richard Grandpierre, che era il produttore de “Il patto dei lupi” e con il quale Christophe non aveva più lavorato dopo, o almeno non erano mai riusciti a concretizzare insieme un progetto. Tutto è successo molto velocemente. Già trovavo che “La Bella e la Bestia” fosse una bella idea, poi è arrivato il nome di Léa, l’adeguamento era fattibile, e dava voglia di continuare. Poi, conosciamo la storia, Christophe e Sandra Vo-Anh sono riusciti a scrivere una sceneggiatura che riuscisse a modernizzare il racconto sempre rifacendosi alle origini, come Bram Stocker con “Dracula”. Il film è stato finanziato abbastanza velocemente perché credo che la presentazione e la storia abbiano rassicurato da subito i produttori di Pathé. E poi, visto il successo che ha riscosso il trailer appena messo su internet, continuo a pensare che sia stata una buona idea.

Che contributo ha dato al personaggio?

È un caso molto particolare. Io non controllo nulla del mio personaggio concretamente! Si, abbiamo discusso sulla definizione dello stile che avrebbe potuto avere, in che misura la Bestia doveva somigliarmi, fino a che punto, come, dove… ma poi, man mano che il film si definiva, fino al momento in cui sono entrato sul set, mi sono reso conto che non sarebbe stato come mi era stato spiegato, né soprattutto come l’avevo immaginato. Mi avevano detto: “Sarà come “Avatar”, con la piccola camera davanti e poi è tutto fatto, tu reciti e successivamente ritrascriviamo”. Ma in effetti no! L’evoluzione della tecnologia ha fatto si che “Avatar” fosse già Old School, e una buona parte del lavoro doveva farsi in postproduzione. Quindi tutto il lavoro fatto sul set in termini di recitazione e d’emozione, doveva passare attraverso il corpo, altrimenti non sarebbe rimasto nulla! Una volta digerito questo, mi dissero: “Faremo come in “Lo strano caso di Benjamin Button”, una crema fosforescente sul viso, 80 camere HD disposte in posizione concava, 100.000 punti sul tuo viso”. Meglio di 70 o quanti ce n’erano dell’epoca di Avatar. Che cosa posso dire? Si! Dopo le riprese, quando siamo dovuti partire per San Francisco per fare il viso della Bestia, che rappresenta l’80% di ciò che dovevo fare in termini di recitazione, ci siamo resi conto che Contour, la società che aveva sviluppato questo software, aveva chiuso perché la tecnologia si era evoluta ed era diventata molto più accessibile. D’un tratto, non era più questione di 80 videocamere ma di 6. Non c’era più bisogno di pomate, ed al posto di un computer impossibile da trasportare, si faceva con uno strumento che si trovava in Canada e che rilevava milioni di punti! Su questo non si poteva discutere. Ci si adatta, e dunque ho fatto quello che dovevo fare. Nel momento in cui ho realizzato questa cosa, che consiste nell’esprimere tutte le espressioni della Bestia, mi rendo conto che 250 ragazzi ci lavoreranno sopra, sul mio sopracciglio, la brillantezza del mio occhio, la lunghezza dei denti, la densità del pelo, l’ombra. Ad un certo punto, cedi le chiavi del camion e dici “Bene ragazzi, conto su di voi!”. Ecco a che punto sono.

Come è andato l’incontro con Léa?

Molto bene, e non poteva essere altrimenti. Non so dire nello specifico perché è stata una buona scelta, ma Léa, in quel ruolo, ha ancora un non so che di ingenuo, mi fa pensare molto a Simone Signoret da giovane. É riuscita, con pochi film, ad imporsi in modo particolare, e se andiamo oltre la polemica inutile su “La vita d’Adele”, capiamo che  lei è capace di tutto, può passare da un film di Christophe Honoré a “Mission Impossible”. È già riuscita a uscire dalla Francia e a conquistare l’attenzione del cinema internazionale: quando questo succede, o lo sfrutti oppure no. In tutti i casi, lei lo fa abbastanza intelligentemente. La reazione del pubblico al trailer lo conferma. Il nome di Léa e ciò che lei è riuscita a creare in questi ultimi anni, serve al film, perché la gente ha voglia di vederla là dentro.

Come è riuscito a legare le scenografie dall’aria colossale e i green-screens?

Ancora una volta, bisogna tornare a qualcosa di molto ludico e non sbatterci troppo la testa. Il tipo degli effetti speciali mi ha detto, un giorno, una cosa che è diventata un mantra: “Mai perdere di vista il prodotto finito”. Bisogna immaginare tutto il tempo cosa diventerà, altrimenti ci sentiamo continuamente in situazioni ridicole, recitiamo con una croce verde sulla fronte, con un vestito aderente con un moncone verde perché la tua coda sarà aggiunta in immagine di sintesi. Ma quando ci si astrae da tutto questo e si vede il prodotto avanzare, ci si gioca semplicemente insieme. Mi ripeterò, ma uno dei miei migliori ricordi del teatro, sono George Wilson e Dufilho in “Io non sono Rappaport”, al teatro dell’Opera. Questi due, con solo una panchina, mi avevano fatto completamente dimenticare la nozione del tempo e dello spazio. E alla fine si tratta di questo: dell’aspetto tecnico bisogna parlarne con la stampa, ma a noi non ce ne frega niente. Certamente, è qualcosa di prodigioso, ma fa parte dell’industria cinematografica di oggi. Anche Serrault diceva qualcosa di geniale su quest’argomento: “Ci sono persone che passano le loro giornate a costruire una scenografia geniale e tu devi solo occupare il set, anche se non fai nulla. Non bisogna assolutamente recitare per il team. Se non c’è niente da fare non fare niente”. Bisogna accettarlo, quando si lavora per un film di questo genere. L’importante è il prodotto finito, e se bisogna recitare con un casco peloso addosso, c’è solo da accettarlo.

Sembra che questo facesse divertire parecchio Léa…

Facevo un sacco lo scemo con il costume. Valeva davvero la pena divertirsi perché distendeva gli animi. Ma ho l’impressione che Léa ha scoperto, che ci sono degli aspetti molto tecnici nel cinema che lei non conosceva. Per lei che veniva da un tipo di cinema d’autore francese, è stato probabilmente più difficile all’inizio recitare di fronte a un cerotto che con Louis Garrel. Qualche volta mi chiedeva di farla ridere perché doveva recitare con la piccole creature, i Tadums. In effetti, quando si è costretti a recitare davanti al nulla, c’è un che di teatrale nel cinema realizzato con gli effetti speciali. Se non si è abituati e se “si perde di vista il prodotto finito”, ci si può sentire un po’ ridicoli. Ma bisogna astrarsi e selezionare bene le immagini del making of!

Come era Babelsberg?

Gli Studios sono fatti davvero bene, le persone sono molto competenti, tecnicamente è il paradiso. Ma era inverno in Germania. È certo che se non ami la techno e hai smesso con l’ecstasy, non è poi così divertente! Preferisco recitare in Spagna, al sole e con gente che beve del vino!

Come si è evoluto nel tempo il rapporto con Christophe?

Quello che è fantastico tra noi, è che abbiamo un rapporto molto semplice e diretto. Quando non siamo d’accordo, ce lo diciamo subito e chiaramente. Nessuno si è mai formalizzato. Christophe non è quel tipo di regista che crede che poiché fa dei film con me, io gli appartengo. Spesso va a vedere dei film che ho fatto e mi chiama per parlarne. È stato uno dei primi ad andare a vedere “Sheitan” in sala. Qualche volta ha delle opinioni molto taglienti, ma sulle mie scelte è sempre stato bendisposto ed ha sempre capito i desideri che avevo. È fico stare con lui, in effetti. Ci divertiamo, ed è un buon segno, perché al di là di tutto, sono 14 anni che il nostro rapporto dura.

Cos’è che ha fatto per questo film che non aveva mai fatto prima?

Dare fiducia! Per forza di cose, sono stato obbligato a mettere in mani altrui ciò che genericamente faccio io. Avviene spesso nei film che molte cose vengano alterate in fase di montaggio, ma in termini d’emozioni e intenzione, in qualità di attori imprimiamo sempre qualcosa di molto forte. Qui no… sono nelle mani di gente che non conosco. Ma questo è il patto, e con il budget del film e i mezzi utilizzati, penso che il risultato sarà magnifico. L’abbiamo detto spesso durante la preparazione: nel peggiore dei casi sarà sublime perché tra i costumi e le scenografie si vedeva già che sarebbe stato sontuoso. Poi, come riuscire a emozionare con una fiaba che le persone già conoscono? Se riusciamo a farle entrare nella storia dei due personaggi… abbiamo vinto.

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