CHIRURGIA DEL PIEDE: Intervista al Prof. Paolo Maraton Mossa, un ortopedico fuori dagli schemi

downloadProf. Maraton Mossa, lei è uno dei massimi specialisti in chirurgia del piede al mondo e ha al suo attivo ben oltre 18.000 interventi chirurgici. Ci può spiegare perché si è specializzato nella chirurgia del piede e non altri distretti corporei?
La chirurgia del piede è la logica conseguenza di deformità e difetti di funzione del piede, non esiste praticamente parte dello scheletro che non abbia rapporti diretti o indiretti con il piede e la sua postura, dal ginocchio all’anca, dalla colonna ai disturbi della masticazione. Questo fatto è stato inizialmente sottovalutato e solo negli ultimi anni ha assunto la posizione scientifica che si merita. Io sono stato sicuramente lungimirante intravedendo le difficoltà interpretative e la complessità di un apparato di 26 ossa, rispetto ad articolazioni più potenti ma sicuramente più semplici da gestire. Una sfida all’inizio, un importante successo in seguito.

Lei lavora solo ed esclusivamente in libera professione, per quale motivo questa particolare decisione?
Lavoro solo privatamente da circa 12 anni, ovvero da quando gli ospedali sono stati trasformati in “aziende” e devono quindi rispondere ai requisiti organizzativi ed economici tipici delle imprese commerciali, situazioni che assolutamente non condivido nella Sanità. I medici sono sempre stati una categoria di lavoratori molto debole dal punto di vista contrattuale e facilmente accontentabili – in quanto, salvo alcune eccezioni- hanno da sempre considerato la prestazione convenzionata e la conseguente retribuzione lo “zoccolo duro” minimo di sopravvivenza in contrasto alla libera professione, intesa come secondo lavoro, spesso incerta e sensibile ai mutamenti economici del Paese e della società. Date le mie convinzioni, ho optato per la libertà
assoluta facendo un solo lavoro a tempo pieno, ove solo la meritocrazia porta al successo professionale ed economico senza mezzi termini e compromessi, non assoggettandomi quindi a un’ubbidienza totale e cieca delle regole delle varie amministrazioni ospedaliere solo per meri motivi di budget. Io ritengo che la libertà di scelta dei professionisti sia da coinvolgere in un atto chirurgico e soprattutto ritengo che i materiali da utilizzare per tale operazione non possano essere decisi da un budget o da un amministrativo ma solo in base alle singole problematiche del paziente e alle sue reali esigenze.

Lei ha lavorato molti anni in prestigiosi ospedali statali, non sarebbe stato più facile decidere di rimanere a dirigere queste grandi strutture e contemporaneamente esercitare la libera professione?
No! Non sarebbe stato più facile perché avrei dovuto dividere le mie energie, il mio tempo e il mio modo di essere tra ospedale, clinica privata, viaggi di aggiornamento e riposo, probabilmente riuscendo a scontentare entrambe le strutture. Per scontentare non mi riferisco assolutamente alla qualità della prestazione ma bensì alla modalità e alla tempistica della prestazione stessa. Faccio
presente che negli ultimi anni di attività pubblico-privata, avevo una lista di attesa di circa tre anni in ospedale e di circa tre mesi in clinica privata. Situazione imbarazzante? Sì. Criticabile? Forse. Ma perché? Non ho mai spinto un paziente a imboccare una strada o l’altra pur spiegando per chiarezza le differenze. Per questo motivo negli ultimi anni mi sono rifiutato di redigere personalmente le prenotazioni e le liste operatorie affidando tale compilazione alla Direzione Sanitaria della struttura. Lavorando solo privatamente ho praticamente annullato le liste di attesa e non sono distratto dalla burocrazia incalzante. Chiaramente potevo rimanere senza lavoro a fronte peraltro di spese di gestione molto importanti. Un Centro come Il Centro Pilota del Piede di Milano garantisce naturalmente cure di primo ordine e anche un comfort elevato, dunque anche le spese non sono naturalmente paragonabili a un classico ambulatorio di ortopedia.

La sua deontologia professionale l’ha portata a rifiutare di operare, sebbene ne abbia le capacità tecniche e profonde conoscenze scientifiche, parti anatomiche differenti da piede e caviglia, perché? Quali le motivazioni di una così profonda specializzazione?
Le decisioni nella vita sono sempre imprevedibili. Ovviamente per tanti anni – sia a Niguarda che al Policlinico San Donato, così come in altre strutture convenzionate – ho operato tutto, con entusiasmo e competenza. E questo è un mio preciso dovere. Sarebbe stato eticamente scorretto e criticabile selezionare la patologia ortopedica avendo la responsabilità e la direzione di un reparto o di un servizio di ortopedia e traumatologia. Solo nel tempo libero o nella libera professione potevo approfondire i miei interessi specifici selezionandoli. Alcuni decenni fa molto trascurato, il piede è sempre stato per me l’organo più complesso, lo ritengo un apparato di difficilissima gestione e pertanto affascinante nella sua delicata e complessa biomeccanica. L’incontro poi con il Prof. Antonio Viladot di Barcellona e la frequentazione del suo reparto sono stati determinanti nella scelta. Il Prof. Viladot è stato uomo eccezionale con disponibilità assoluta, riferimento mondiale della chirurgia del piede di allora e di oggi nonostante la sua dipartita.

Sappiamo che lei opera giornalmente personaggi importanti del mondo della politica, dello spettacolo della finanza e dello sport. Parlando con molti suoi pazienti, ci è stato riferito che Lei tratta tutti indistintamente. Dunque a parità di patologia, accesso anche alle medesime cure o ci sono differenze tra chi più può spendere da chi ha meno possibilità economiche?
Nessuna differenza sostanziale tra paziente e paziente, tuttavia comprenderete che in regime totalmente privato tutto si può fare: se un paziente importante richiede una particolare privacy si cerca di accontentarlo; se un paziente richiede la presenza di una sua domestica o una guardia del corpo si prenotano due camere; se un paziente è particolarmente ansioso lo si vede qualche volta di più rispetto ai protocolli abituali; se un paziente ha orari di viaggio intercontinentale inderogabili, lo si opera in funzione dei suoi impegni e non in funzione della disponibilità della struttura. In alcuni casi se sussiste la necessità, un mio collaboratore può andare a fare un controllo o a togliere i punti anche a più di 1000 km di distanza. Non esistono regole, tutto è fattibile. Naturalmente chi arriva al suo Centro esige il meglio possibile, ma sappiamo anche che è lei la prima persona a esigere il massimo dai suoi collaboratori, assistenti, ferristi e così via. Cerco sempre di mantenere quello che prometto. L’educazione che ho imparato nella mia famiglia è sempre stata alla base dei miei rapporti interpersonali, pertanto ci sono atteggiamenti che non riesco a tollerare come la mancanza di puntualità, l’uso sconsiderato del telefono cellulare, la presenza del cappello sul capo in studio; do del lei a tutti e da tutti esigo la massima educazione. Sono apertissimo a tutte le critiche costruttive, chiuso a tutte le polemiche fine a se stesse. Ho la massima pazienza con i bambini irrequieti se i genitori sono a disagio. La capacità dei collaboratori non è in discussione, se non rispondono alle mie esigenze vanno a casa.

Tutti i pazienti vengono visitati direttamente da lei in modo molto accurato e poi, se necessario, operate. Per quale motivo tutto ruota attorno alla sola sua abilità medica e chirurgica?
Non sono un sostenitore del lavoro di équipe, sono più che mai convinto che l’equipe sia di sostegno al lavoro del leader. Pertanto la mia organizzazione non è trasversale ma di tipo piramidale dove ognuno rende conto al suo superiore e l’ultima decisione la prendo io. Non è un atteggiamento antidemocratico; e poi chi lo ha detto che la democrazia è il modo migliore di gestire la Sanità? In questo modo meriti e critiche sono solamente mie senza ambiguità e scarichi di responsabilità. Assicuro che quelle poche volte che ho per breve tempo modificato in apertura questo modo di lavorare, sono sempre andato in contro a grandi delusioni.

Vista la sua fama internazionale, non sarebbe più semplice formare un’équipe che possa operare secondo le sue indicazioni?
Assolutamente no! Quando lei vuole un abito su misura va dal sarto da lei scelto o dalla segretaria della sartoria diretta dal suo sarto? È la stessa cosa, oggi nella Sanità esiste il pubblico, il privato convenzionato, il privato delle assicurazioni e il privato reale. Privato reale significa cercare il professionista adeguato alle proprie esigenze, affidarsi ciecamente al medico selezionato, pretendere di essere gestito in prima persona instaurando con il professionista un rapporto contrattuale chiaro e preciso. Questa è la vera libera professione e così lavoro io.

Le è capitato che le abbiano offerto cifre importanti per avere un trattamento privilegiato?
Per come lavoro oggi no, solo qualche volta è scappata la frase “non ci sono problemi economici” oppure “la mia assicurazione mi rimborsa tutto”. Altro lo considererei un’offesa. Quando invece lavoravo in strutture pubbliche o convenzionate dove il paziente non deve pagare nulla, il tentativo di offrire denaro in cambio di prestazioni privilegiate era all’ordine del giorno. Ho sempre risposto: “faccio finta di non avere capito”.

Lei cosa pensa in senso generale della chirurgia estetica? È utile o è una pratica pericolosa?
Non ho le carte in regola per parlare di chirurgia estetica in senso lato quindi mi limito a dire che critico l’abuso della chirurgia estetica e critico lo sfruttamento delle false aspettative dei pazienti. Per quanto riguarda la pericolosità tutto è legato all’improvvisazione, alla eventuale inadeguatezza degli ambienti in cui si lavora e naturalmente dal grado di preparazione del chirurgo.

Stanno nascendo ovunque cliniche nelle quali si offrono servizi di chirurgia estetica e anche i prezzi ormai sono molto contenuti. Lei pensa che la chirurgia estetica possa essere il futuro per molti medici chirurghi? Sappiamo che molti illustri colleghi si stanno orientando in tal senso.
Molti chirurghi si stanno orientando verso la chirurgia estetica e questo dipende da diversi fattori. Innanzitutto distinguiamo tra chirurgia plastica e ricostruttiva che presenta le stesse competenze professionali e organizzative della chirurgia addominale, della neurochirurgia dell’ortopedia e così via. Queste figure professionali eseguono pesanti interventi, trapianti di lembi cutanei, terapia delle gravi ustioni e altro. Altra cosa è la “chirurgia estetica” in senso riduttivo, per chi si occupa dell’aspetto fisico prevalentemente del viso, del seno e della disposizione del grasso. Negli ultimi anni queste attività sono sicuramente numericamente cresciute perché interferiscono sulla percezione del benessere personale, in contrasto con il malessere sociale. Avviene anche in borsa quando la maggior parte delle azioni crollano ma le azioni riferite al lusso salgono. Per queste attività peraltro non sono necessari importanti investimenti e il passaparola è molto frequente. Quanto ai risultati  e ai pericoli, l’esperienza e l’ambiente dell’operatore è fondamentale.

Quanto ritiene importante conoscere accuratamente il paziente? Le sue visite possono durare anche più di due ore, è vero? Come si pone nei confronti del paziente? Ritiene di essere un innovatore che propone le ultime tecniche chirurgiche o ritiene errato seguire le mode?
Sì, è vero per quanto riguarda l’approccio con il paziente. Per me è fondamentale la conoscenza delle modalità di lesione, la storia clinica del paziente, il suo stile di vita, le patologie associate anche non di carattere ortopedico, gli sport praticati, i farmaci assunti, le aspettative di guarigione. Non si possono avere queste notizie in meno di un’ora prima della visita vera e propria. Per quanto riguarda le mode in chirurgia, le ritengo una delle più gravi piaghe dei nostri tempi anche perché nascono, si sviluppano e muoiono solo sulla pelle dei pazienti. Anche qui è fondamentale fare un’importante distinzione: alcune nuove tecniche sono la naturale evoluzione in chiave moderna di tecniche già utilizzate da anni e decenni, e dunque che ben vengano. Altre tecniche invece sono nate per ridurre i tempi delle camere operatorie o sotto stimolazione di aziende produttrici di protesi o mezzi di sintesi. Niente di male se queste tecniche si aggiungono alle numerose in nostro possesso in modo da avere una maggiore gamma di scelta. A mio avviso invece degno di critica è l’abbracciare una metodica e operare poi i pazienti tutti con la stessa tecnica. Spesso alcuni pazienti mentre si tolgono le scarpe mi dicono: naturalmente lei mi opererà con la nuova chirurgia “mininvasiva” di moda adesso. Questo mi sembra un grosso danno per il paziente e per il chirurgo stesso.

Anche in chirurgia si seguono dunque le mode? Le ritiene valide o pericolose?
Una moda è sempre pericolosa se inserita nel contesto errato. Brevemente mi limiterò a esprimere un giudizio sulle problematiche che affronto quotidianamente. Sono convinto che l’artroscopia sia nata per lavorare nelle cavità, pertanto sono contrario alle artroscopie di caviglia che di fatto è una fessura. Sono anche ipercritico sulla chirurgia mininvasiva indiscriminata dell’avampiede oggi molto di moda. Non entro nel merito della questione: il 50% dei pazienti che operiamo all’avampiede sono già stati operati in altra sede da 1 a 5 volte e di questi il 50% in chirurgia mininvasiva. Quindi, la moda in chirurgia è sempre criticabile, diversamente dalla scelta di una nuova metodica dopo un adeguato e logico procedimento riflessivo caso per caso.

Molte mode nascono in America e una tra le ultime è quella di farsi operare i piedi per ridurne le dimensioni globali o addirittura ridurre la lunghezza delle dita. Lei cosa pensa di questa moda?
Sicuramente non condivido l’atto chirurgico riduttivo del piede per soli motivi estetici, il danno per la presenza di dolore e l’eventuale instabilità a distanza di tempo può diventare problematicamente incompatibile con una serena vita di relazione. Diversamente una lunghezza disarmonica sia delle dita che dei metatarsi può richiedere una revisione chirurgica e risolvere così contemporaneamente l’aspetto estetico del piede e l’inevitabile danno funzionale nel tempo.

Pratica la chirurgia estetica dei piedi? La ritiene eticamente corretta?
No, non pratico la chirurgia estetica del piede. Quanto al fatto se sia più o meno etico eseguirla, tutto dipende da come si imposta il rapporto medico-paziente. Se il medico è un esecutore dei capricci del paziente, buon lavoro ma attenzione agli aspetti medico-legali! Se l’ortopedico al quale ci si rivolge con fiducia è un punto di riferimento per la propria salute, il discorso cambia profondamente.

Sappiamo che molti suoi clienti sono attori e attrici americani, oltre a mogli e fidanzate di magnati russi e arabi. Tra queste persone sta dilagando la richiesta di interventi estetici ai piedi sino ad arrivare alla richiesta di amputazione di un dito al fine di poter indossare calzature sempre più strette e sempre più alte. Amputare un dito del piede a fini estetici potrebbe essere una cosa giusta? Non compromette la postura o la salute del paziente?
Sicuramente ho operato e opero molte persone dello spettacolo, dello sport, della finanza e altri personaggi molto noti. Fortunatamente trattasi anche di persone molto intelligenti che dopo avere manifestato le problematiche e desideri estetici ed estetico-funzionali dei loro piedi, si lasciano poi consigliare al meglio sulla forma di risoluzione più saggia o di miglior compromesso nel contesto dei rischi che potrebbero correre, pur considerando l’esigenza di mantenere lavori particolari come succede prevalentemente nelle ballerine, nelle indossatrici e in alcuni tipi di sportivi nei quali il piede gioca un ruolo importantissimo sotto ogni aspetto. L’amputazione di qualunque parte del corpo è sempre il risultato del fallimento di qualunque protocollo, atto medico, fisioterapico e chirurgico. A scopo estetico questa considerazione assume una valenza ancora più importante se riferita a un piede sano. Asportare un seno sano o una prostata per familiarità e alta propensione a sviluppare tumori, ha un significato ben preciso, atteggiamento non criticabile sotto ogni aspetto anche se da diversi colleghi non condiviso. Anche l’amputazione di un arto per non tenere una estremità altamente deformata e sofferente all’appoggio e non ulteriormente correggibile ha un significato, tenendo presente che con una buona protesi dopo due mesi si va a sciare. Non si discute mai in presenza di tumori, ove tuttavia bisogna usare tecniche particolari. Nello specifico quando è necessario amputare un dito del piede non bisogna mai amputare solo il dito ma anche il metatarso corrispondente per non compromettere eccessivamente la statica del piede e poter ricostruire quindi un piede a 4 dita. L’unica amputazione programmata con ricostruzione del piede è l’asportazione del dito e del metatarso nei soggetti che nascono con 6 dita. In alcuni casi giungono alla nostra osservazione pazienti che vogliono amputare un dito ingestibile nella calzatura per dimensioni, forma e dolore. In questi casi procedo all’amputazione del dito sempre con ricostruzione del piede a 4 dita. Non ritengo tuttavia questo atto di natura estetica.

Come si comporta quando le avanzano tali richieste?
Se la richiesta non è suffragata da alterazioni funzionali o potenzialmente funzionali, mi rifiuto.

Sempre una tra le ultime mode quella di eseguire delle punture riempitive di botulino nei piedi al fine eliminare la sudorazione e non rovinare così dunque sandali gioiello o scarpe costosissime, a suo parere è una forzatura?
No, non è una forzatura. La cospicua e anomala sudorazione delle mani e dei piedi è un problema da non sottovalutare non tanto per non rovinare costose calzature ma per evitare l’insorgenza di funghi, micosi e macerazioni spesso irreversibili che compromettono gli spazi interdigitali la cute e le unghie del piede. Quindi, non si tratta di mode ma di esigenza di contrastare questo stato di cose. Non esistono trattamenti sicuramente vincenti ma il botulino e lo sfruttamento degli effetti collaterali di alcuni farmaci spesso sono l’unica terapia da intraprendere. Alcune donne possono fare il trattamento in occasione di una sfilata o di una serata importante per sentirsi più a loro agio anche in assenza di cattivi odori, non ci trovo nulla di criticabile.

Quali sono i limiti tra la fattibilità e l’infattibilità?
Se parliamo di chirurgia plastica tradizionale direi il buon gusto e il buon senso, parametri molto difficili da quantificare perché individuali. Se parliamo invece di potenziale chirurgia estetica del piede direi la biomeccanica, parametro più facile da valutare se si conoscono a fondo i principi e le basi della fisica e della meccanica.

Come si comporta nei casi in cui l’operazione è richiesta da un uomo e non una donna?
Non esiste alcuna differenza sostanziale a livello decisionale tra uomo e donna. C’è solo da tenere in considerazione che la donna più facilmente va in contro a problematiche dell’avampiede mentre nell’uomo sono più colpite le ossa del tarso e la volta plantare. Pertanto questi elementi vanno tenuti in considerazione nelle richieste di natura estetica dove tuttavia si intravedono i primi sintomi di alterazione funzionale.

Molto spesso il cambio di sessualità da uomo a donna passa spesso anche da un lungo percorso non solo psicologico ma anche chirurgico. Lei cosa ne pensa?
Ho il massimo rispetto per i seri cambiamenti di sesso quando lo spirito, l’anima, il modo di essere di una persona è stata dalla natura inserita erroneamente nel corpo sbagliato. Ho una esperienza concreta in questo settore in quanto quando lavoravo a San Donato, nella stessa struttura, operava un ottimo chirurgo generale che si occupava elettivamente di questi tipi di interventi di cambiamento di sesso. Devo dire che mai mi è stata fatta una richiesta di trattamento chirurgico del piede a fini estetici da questi soggetti, escludendo ovviamente la problematica dell’alluce valgo, molto frequente in questi pazienti a causa degli ormoni femminili a essi somministrati.

In questi casi lei sarebbe disponibile a operare?
No, penso che mi rifiuterei o meglio cercherei, anche in più tempi, di portare il paziente alla consapevole conclusione che non fare niente è la decisione più saggia, salvo magari piccoli interventi sulla lunghezza delle dita.

Quali sono le manie più diffuse tra i cosiddetti VIP?
Non dimentichiamo che i VIP non sono stupidi, quando viene loro spiegato con le parole adatte e con adeguata documentazione il danno al quale potrebbero andare in contro, capiscono e rinunciano più che mai convinti alle loro richieste in assenza di iniziali disturbi funzionali.

Lei ha operato e opera moltissimi importanti calciatori e sportivi, quali sono le patologie più diffuse che vengono da lei trattate?
In assoluto le distorsioni della caviglia con lesione legamentosa del compartimento esterno.

Quali sono le categorie di persone che maggiormente si rivolgono a lei e alla sua professionalità?
Soggetti di tutte le categorie sociali affetti da gravi deformità del piede. Problematiche gravissime in soggetti meno benestanti, perché spesso considerato a torto o a ragione “l’ultima spiaggia” dopo numerosi trattamenti chirurgici. Patologie meno importanti in soggetti molto benestanti per il passaparola e per avere un atto chirurgico, una degenza e un trattamento globale consono al proprio elevato stile di vita. Sportivi indipendenti, non sempre professionisti, in quanto i professionisti spesso entrano nell’ingranaggio dei medici convenzionati con le società sportive e con le assicurazioni, cosa che io non ho mai voluto accettare. Per me al primo posto c’è l’integrità dell’atleta, non la stagione agonistica.

Immaginavamo che VIP e persone molto facoltose fossero tra i suoi principali clienti ma da quanto lei afferma è in realtà anche la persona comune che dopo un eterno pellegrinare approda finalmente al suo Centro, dove trova le competenze adeguate. Per quale motivo tante persone si devono rivolgere alla sua struttura prima di risolvere i propri problemi?
Innanzitutto per avere tutto il tempo di parlare, anche in più riprese, senza fretta e sempre con lo stesso interlocutore, sicuramente con un’ampia esperienza e in contatto con i migliori specialisti e anestesisti per un approccio multidisciplinare quando dovesse essere necessario. Nel nostro lavoro il numero degli interventi eseguiti, il non dovere rendere conto dei tempi di sala operatoria agli ispettori delle ASL e dei giorni di degenza unitamente al fatto che l’interlocutore opera solamente le problematiche che interessano al paziente, è a mio avviso un atteggiamento vincente. Personalmente non conosco un altro ortopedico che pur occupandosi di piedi rifiuta di operare in regime privatistico un’altra articolazione. Io lo faccio e ritengo sia un valore aggiunto perché il paziente troverà sicuramente Colleghi più competenti e abili di me per una mano, un ginocchio, un’anca e così via.

Cosa vorrebbe dire a tutte le persone che hanno subito interventi che non si sono conclusi nel migliore dei modi al primo tentativo?
Difficile rispondere! Un insuccesso può capitare a tutti. In prima battuta io consiglio di tornare dal chirurgo e chiedere spiegazioni, da lui personalmente non da altri presenti nello stesso ambulatorio. L’intervento e le sue complicanze dovevano comunque essere adeguatamente spiegate dettagliatamente anche con disegni, immagini, casistica prima dell’intervento. Se si incrina il rapporto medico-paziente non accettare un secondo intervento riparativo dallo stesso chirurgo, ma documentarsi adeguatamente e affidarsi a mani esperte sperando che durante il primo intervento sia stato fatto un errore di valutazione o un errore tecnico, ovvero che non sia stato fatto troppo piuttosto che troppo poco e male (situazione decisamente più favorevole per un reintervento). Diffidare sempre di interventi che vengono presentati semplici, di breve durata, in anestesia locale. In chirurgia nulla è facile e ogni caso è un caso a se stante che deve essere adeguatamente studiato e confrontato con l’esperienza e con il bagaglio culturale di ogni chirurgo.

Per ulteriori informazioni:

Prof. Paolo Maraton Mossa
Direttore Scientifico
Centro Pilota di Chirurgia del Piede di Milano
Titolare della Cattedra di Ortopedia dell’Università di Lugano
Centro Pilota di Chirurgia del Piede di Milano
C.so Lodi 18 – 20137 Milano – Italia
Tel. +39 02 5515093 – Fax. +39 02 514191
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