CINEMA: Intervista a Fabien Constant, regista di “Mademoiselle C”

MADC_POSTER_BdataCarine Roitfeld è la redattrice di moda più conosciuta al mondo insieme alla direttrice di Vogue America, Anna Wintour. È anche la più inaccessibile. Dopo dieci anni passati alla direzione di Vogue Paris, coronati di successi e di scandali di ogni genere, all’inizio del 2011 sbatte la porta del famoso rotocalco e parte per un viaggio verso quello che lei stessa definisce “la libertà” e lancia la sua sfida più grande: creare una nuova rivista. La quintessenza della rivista di moda, la più chic, la più sorprendente, la più glamour, la più innovativa e che, naturalmente, porterà il suo nome, CR. Moda, potere, modelle: tutti si ritrovano attorno alla più iconica delle redattrici di moda del mondo, alla più parigina, alla Torre Eiffel su un tacco 12: l’irreverente Mademoiselle C.

Fabien Constant l’ha immortalata in un docu-film emozionante. Scopriamo di più su questo viaggio nel mondo della moda e non solo…

Come è nata l’idea del documentario?

Il mio primo incontro con Carine è avvenuto nel suo grande studio bianco e vuoto nella redazione di Vogue Paris. Dovevo intervistarla per una Vogue Fashion Night. Alla fine delle riprese, si è offerta di riaccompagnarmi a casa approfittando della sua auto con autista. In questo non è cambiata e ha continuato a propormelo. In un angolo della mia mente ho sempre accarezzato l’idea di fare un film sulla Fantastica Vita di Carine Roitfeld. Ma aspettavo che si verificasse un evento che mi desse lo spunto giusto perché detesto i «documentari d’accesso» in cui filmi una persona famosa solo perché hai l’opportunità di accedervi. Avevo bisogno di una storia e l’ho avuta quando ha lasciato Vogue e ha annunciato che avrebbe creato una rivista tutta sua. Lì ho capito di avere a disposizione un vero arco narrativo. Ho incontrato Carine al Crillon e le ho proposto di seguire la sua avventura dalla prima riunione di redazione alla pubblicazione del CR Fashion Book. Poiché in passato le avevo già fatto intendere che avevo un progetto che mi frullava in testa, penso che lei fosse pronta per aderirvi e non è stata colta di sorpresa. Mi ha detto subito «sì», quello stesso giorno, sorseggiando un tè verde insieme a me.

La storia si articola su tre livelli…

Il desiderio principale era di filmare la creazione di una rivista dal momento che è un universo molto misterioso per chi si interessa di moda e di stampa femminile: nessuno viene mai invitato alle scrivanie delle redattrici di moda, non sappiamo come si svolgono le riunioni, da dove ricavano le idee, chi decide cosa, chi stabilisce la collocazione delle inserzioni, eccetera. Mi entusiasmava assistere a quello che Carine avrebbe potuto tentare di fare da sola dopo dieci anni passati a Vogue, dopo aver inventato lo stile Roitfeld ed essere diventata un’icona così identificabile e identificata con un supporto come lo è stata con l’edizione francese di Vogue. La scommessa richiedeva un coraggio enorme da parte sua. E io, attraverso la porta che mi apriva sulla sua vita, desideravo mostrare il mondo della moda nella sua globalità. Ma più che altro nel giro di pochissimo tempo mi sono reso conto che stavo tratteggiando il ritratto di una donna, per il semplice motivo che non esiste un confine tra la vita professionale e la vita privata di Carine. Nella sua quotidianità ogni cosa si mescola.

Cosa significa CR…

Per me Carine Roitfeld è sempre stata l’icona assoluta della moda. Un profumo impalpabile, una fantasia della pura essenza della moda. Basta sentir dire: «Fammi uno sguardo alla Carine Roitfeld» oppure «assumi un atteggiamento più Roitfeld» per sapere esattamente di cosa si tratta. Poco importa se fa questo mestieri da 30 anni: Carine resta un punto di riferimento in un ambiente in cui le persone vengono prese, spremute e buttate via. Motivo per cui quando questo pilastro ha iniziato a vacillare sui suoi tacchi alti dieci centimetri lasciando Vogue, ho voluto scoprire come lo stendardo avrebbe continuato a sventolare nel bel mezzo della tempesta. Poiché un po’ la conoscevo, sapevo che era una persona generosa, semplice, accessibile. L’esatto contrario della vedova nera misteriosa e sensualmente arrogante che si vede sui mezzi di informazione. Ero curioso di scoprire cosa ci fosse dietro quella armatura, di comprendere l’impatto puramente stilistico che è riuscita ad avere e che esercita ancora oggi. Insieme a Tom Ford e Mario Testino, ha modificato il volto della moda e ha segnato un intero decennio creando negli anni ’90 il «porno chic» (che lei chiama «erotico chic»). Da allora, tutti si sono precipitati nella breccia.

Perché un’opera per il grande schermo?

L’idea di distribuire il film nelle sale cinematografiche è venuta ragionando con i miei co-produttori di Black Dynamite: Guillaume Lacroix ed Eric Hannezo. La mattina successiva al mio colloquio con Carine, dopo aver avuto il suo consenso, ho proposto loro il mio progetto sottolineando il fatto che la prima riunione editoriale della nuova rivista di Carine si sarebbe svolta la settimana seguente. Mi hanno detto «Sali su un aereo, ci stiamo!». Non avevamo neanche un centesimo per iniziare, ma sono partito per New York e scendendo dall’aereo il documentario era letteralmente diventato un film per il cinema. Nell’arco di 48 ore, infatti, avevano avuto la forza e l’ottima idea di parlarne a Stéphane Célérier di Mars Films, con il quale avevano appena realizzato GLI INFEDELI, e poi ad Adeline Fontan Tessaur di Elle Driver che si era occupata delle vendite internazionali di THE SEPTEMBER ISSUE. Entrambi hanno sposato il progetto e la situazione si è sbloccata.

Apriti sesamo…

Carine è il miglior apriti sesamo che possa esistere per fare un film sulla moda. Sono poche le persone che riescono a resisterle. Quando approva una foto, si sa che sarà audace o provocante, ma in ogni caso di buon gusto. E il suo entourage beneficia di quest’aura. Quando arrivavo forte del suo avvallo, la gente si fidava di me. E tuttavia non è stato semplice poiché si tratta di un universo interamente fondato sull’immagine. E alcuni provano una certa diffidenza verso la videocamera. A seconda delle personalità e degli egocentrismi, ho incontrato personaggi di diverso tipo. Dall’artista che non ci tiene a essere messo più in rilievo delle sue fotografie, a colui che non si piace e non desidera essere ripreso da una videocamera mentre è al lavoro. A loro discolpa devo ammettere che li filmavo in momenti di intensa creatività e concentrazione e avere una videocamera e un tizio appollaiati nel proprio campo visivo non è sempre gradevole per i diretti interessati.

Quanto a Tom Ford e a Karl Lagerfeld?

Karl Lagerfeld ama i mezzi di comunicazione e li accetta consapevolmente, come tutto quello che fa nella vita del resto. E io questo lo adoro. Da molto tempo ho sviluppato con lui un rapporto di fiducia per merito dei documentari di Loïc Prigent che ho prodotto. È dunque abituato alla mia presenza e non mi percepisce come un elemento di disturbo, o quanto meno lo spero. Tom Ford, che non conoscevo, è stato più difficile da convincere. Ha una padronanza totale della sua immagine ed è consapevole di quello che una macchina da presa può sottrargli. Detesta l’idea di lasciare che questo sfugga al suo controllo. All’inizio non voleva essere filmato. È stato quindi necessario ammansirlo. E poi non avevo mai visto la presenza di una videocamera nel contesto del processo creativo di Carine e Tom Ford, duo leggendario che ha segnato l’immaginario della moda. Invece di una classica intervista di fronte alla videocamera, alla fine ho preferito proporgli di narrare in voce fuori campo il suo fiabesco racconto, filo conduttore della sua sessione fotografica. L’idea lo ha entusiasmato ed è così che è nato questo piccolo film nel film.

Si parla anche della vita in famiglia…

Quando Carine mi ha detto di sì, per certi versi ha detto di sì a tutto, senza porre condizioni. Ad ogni buon conto la sua famiglia è parte integrante della sua vita professionale. Ogni cosa è collegata. Fin dalla prima riunione, il primo giorno di riprese, ha parlato della sua ossessione per i neonati, il tema che aveva appena scelto per il primo numero della sua rivista, quando sua figlia Julia, incinta di sei mesi, è passata a fare un saluto in redazione. Io non credo ai segni, ma ho girato per nove mesi la storia della nascita di una rivista che si chiama «CR Fashion Book: issue 1 Rebirth (Numero 1 Rinascita)», il cui tema principale era la maternità e la cui copertina raffigura un neonato. A un tratto, Julia e la sua gravidanza sono quasi diventate, senza che ce ne rendessimo conto, il cuore, il polmone del film! Christian, il marito di Carine, è stato probabilmente il personaggio più difficile da convincere perché è molto riservato e detesta l’esercizio della ripresa cinematografica. Un giorno ridendo mi ha detto: «se parlassi, mi sentirei a disagio e mi ci vorrebbe una bottiglia di vodka per ciascuna domanda che mi rivolgessi». Gli ho risposto: «Le rivolgerò cinque domande e mi presenterò con cinque bottiglie di vodka». Cosa che ho fatto, suscitando le sue risate. Abbiamo girato sull’onda di questo gioco.

Quanto al formato?

Ci sono diversi modi di realizzare un documentario. Esiste la forma testimoniale con interviste narrative ed esplicite in cui chi interviene è seduto, le conversazioni sono montate in modo alterno, mentre le immagini live illustrano il contenuto del discorso. Esiste il commento in stile giornalismo gonzo investigativo narrato in prima persona e con la videocamera a spalla di cui Michael Moore è il miglior esponente. Ho cercato di stare volutamente tra i due formati e la mia prima sfida è stata fare un film senza voce fuori campo benché la voce narrante sia spesso di conforto per il pubblico. Volevo che lo spettatore si lasciasse guidare dalla storia e pescasse quello che voleva nelle immagini. Allo stesso modo, non ho voluto inondare il film di informazioni sul passato di Carine. Un film biografico su Carine non è ancora stato fatto. Per questo motivo ho cercato di procedere nella direzione contraria. Per esempio, tanto per citare un dettaglio, la parte biografica, di per sé molto breve, appare solo al 24° minuto.

Carine versus Anna Wintour…

La gente paragona spesso Carine ad Anna Wintour, poiché sono le due direttrici di una rivista di moda più iconiche del nostro tempo. Ma il confronto si ferma non appena si viene a contatto con le due donne. Il mio film è l’antitesi di THE SEPTEMBER ISSUE nella misura in cui Carine è quasi la copia in negativo di Anna Wintour: è istintiva piuttosto che calcolatrice, espansiva e accessibile piuttosto che fredda e distante. E la cosa che ama di più al mondo è alzarsi la mattina per andare a fare delle fotografie. Anna Wintour è una brillante e intelligente donna politica, che si muove in un ambito meno creativo.

Ha scelto un soggetto normale?

Scegliendo Carine come soggetto principale, sapevo di dirigermi verso una visione più dolce della moda e verso un personaggio più affabile, più affettuoso, più «normale» di Anna Wintour. Ma ero soprattutto consapevole che questa normalità sarebbe apparsa in contrasto con una vita che normale non lo è affatto. Carine sale su un aereo ogni tre giorni e corre costantemente tra New York, Tokyo, Miami, Parigi, Londra e Milano. Con lei, ti trovi sempre in begli alberghi e in bei posti, circondato di belle ragazze e di bei ragazzi che indossano dei begli abiti. Nulla corrisponde alla realtà, ma lei ha fatto il possibile per evolvere in questa «irrealtà». Tutta la sua vita si è costruita attorno a questa ricerca. Amo definirla «l’attivista politica del bello»: si alza il mattino con l’intento di apportare maggiore bellezza al mondo, quanto meno al mondo che la circonda.

Lei ha scelto di girare leggero…

È parecchio tempo ormai che maneggio macchine da presa, anche se ho imparato sul campo, girando per la televisione. La mia principale definizione del lavoro documentaristico è lasciare entrare la vita. Ci sono dunque numerose sequenze in cui seguo concretamente l’azione correndo dietro a Carine, standole alle calcagna. Faccio quello che io chiamo «documentari da ascensore»: metto in atto un dispositivo talmente leggero che deve permettermi di poter salire in un ascensore o in un automobile con la persona che filmo. E, credetemi, gli ascensori a Parigi sono molto piccoli!.

La moda alla moda…

Avendo prodotto numerosi reportage e documentari sulla moda, ho assistito e partecipato alla crescente infatuazione per questo universo. Non ci sono mai stati così tanti programmi televisivi, serie televisive e film che si interessano ai suoi emblemi. Motivo per cui, quando sono andato a trovare Guillaume Lacroix ed Eric Hannezo, i miei co-produttori di Black Dynamite, siamo partiti senza pensarci su, convinti che il film avrebbe suscitato un interesse e quindi avrebbe trovato senza grandi difficoltà i finanziamenti. Data l’economia della distribuzione cinematografica dei documentari, il nostro ragionamento si è rivelato un po’ ottimista… Ma l’interesse nei confronti della moda ha comunque permesso al film di essere pre-venduto in tutto il mondo e in primo luogo negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone, unicamente sulla base di alcuni fotogrammi. Questa fascinazione ha consentito al mio documentario di essere realizzato.

Quanto ai “money”?

“Carine dice a un certo punto, con dispiacere: «oggi la moda non è più un sogno, è un business». Lei ha un approccio alla fotografia di moda molto più all’antica e consiste nell’inventare una storia, un universo, una fantasia. È legato al suo percorso, al fatto che ha mosso i primi passi negli anni ’80, un’epoca in cui tutto era possibile, in cui gli inserzionisti avevano meno potere. Insieme a Mondino e Testino faceva dei servizi fotografici folli. Hanno sperimentato di tutto. Ancora oggi la sua rivista è concepita in modo molto artigianale. Mi interessava mostrare questo tipo di attività artigianale più che l’industria della moda.

Cosa può dirci sulla colonna sonora?

La musica è essenziale per me. Alcuni registi montano senza le musiche e a fine montaggio chiedono a un compositore di inserirle. Io sono incapace di lavorare così. Le mie musiche non illustrano, sono parte integrante della narrazione. Ho scelto i «The shoes» perché sono un fan del gruppo. Mi piace il fatto che la loro musica vada in tutte le direzioni, non sia etichettabile, come del resto la loro immagine e in particolare il loro videoclip di «Time to dance» con Jake Gyllenhaal, che trovo veramente ricco sul piano visivo. Guillaume, uno dei due componenti della band, si è presentato in sala montaggio con un enorme hard disc contenente tutto quello che aveva fatto negli ultimi tre anni dicendomi «prendi quello che vuoi». La metà dei brani non era mai stata pubblicata né era mai stata ascoltata da nessuno. Oltre che tra gli inediti, ho potuto attingere al loro catalogo di pezzi già usciti e ho giocato sulle declinazioni utilizzando dei remix: si può quindi riascoltare il brano introduttivo in una versione completamente diversa sul passaggio in Giappone e poi in versione cover stile ballata molto tranquilla durante la riunione conclusiva della squadra di collaboratori di Carine alla fine del film. Se si ha una sensazione positiva guardando quella sequenza, è anche merito del fatto che, a livello inconscio, sappiamo di aver già ascoltato prima il brano in versioni diverse. Ho inoltre utilizzato delle altre musiche perché amo molto creare spaccature e contrasti, la possibilità di ascoltare all’improvviso dei canti medievali, dei cori di chiesa o dei brani al clavicembalo… Adoro Couperin e l’idea di abbinare una delle sue composizioni alle immagini di Kate Upton vestita come Dorothy del Mago di Oz mi ossessionava. Per me la musica è anche una forma di slapstick di cui mi servo per inserire delle gag, come quando utilizzo alcune note di zufolo sulle immagini dei cuccioli a Miami. A seconda del modo in cui lo si interrompe o lo si prolunga, un brano musicale ha il potere di far ridere o di sorprendere. Infine, mi piacciono le battaglie musicali, i pezzi che si mescolano e si sovrappongono, i momenti in cui la musica prende il sopravvento su una buona comprensione delle voci. Cose che normalmente non si fanno nel cinema, ma che a mio giudizio riconoscono alla musica tutto il suo statuto.

E sul self-control e sul titolo?

Carine è una donna d’immagine, ossessionata dal dettaglio e credo che non sia mai riuscita a dimenticare completamente la presenza della videocamera. È uno dei motivi per cui ho intitolato il film MADEMOISELLE C. Al di là del fatto che non è sposata e che l’ho sempre chiamata signorina nella vita reale, amo il riferimento a Coco Chanel che ha conosciuto il successo più grande solo molto tardi, a 70 anni passati, dopo essersi temporaneamente ritirata dalla vita pubblica. Amo soprattutto il sapore deferente dell’appellativo «Mademoiselle» che in Francia viene utilizzato per le attrici di teatro e che conferisce loro lo statuto di attrici cinematografiche. Forse sono un perverso, ma spero che questo titolo lascerà aleggiare il dubbio sulla questione di sapere se è stata sincera con me o se davanti alla mia videocamera ha recitato ogni giorno un ruolo.

Qual è stata la reazione di Carine?

Nessuno ha avuto il diritto di visionare il film. Carine e Stephen Gan, il suo editore di CR Fashion Book, hanno avuto una proiezione di cortesia. Prima di questa prima proiezione, Carine era angosciatissima all’idea di affrontare la sua immagine sul grande schermo per un’ora e mezza. Ha visto il film due volte e credo di sapere che ci sono delle scene in cui non riesce a guardarsi. Ma ha avuto l’intelligenza di capire che quelle sequenze erano necessarie alla narrazione complessiva. Legittimamente, ha avuto dei dubbi, ma ha avuto la delicatezza di lasciarmi sempre l’ultima parola. La primissima versione del film che le ho mostrato durava un’ora e 55 minuti. Per questioni di ritmo, abbiamo tagliato 25 minuti. Eccettuato questo cambiamento di durata, il film che ho fatto vedere a Carine è la copia esatta di quello che si può vedere nelle sale oggi. Non abbiamo modificato né l’ordine delle sequenze, né un solo brano musicale.

La moda diversamente…

“Il film rischia di sorprendere un bel numero di persone che immagina la moda come un universo fatto di isterismi e crisi di nervi. Carine non perde mai la calma. Non so se dipenda dal suo temperamento o dalla sua educazione, ma si assume sempre le sue responsabilità e non divide con nessuno un certo tipo di emozioni. A mio parere, la scena che la definisce meglio è quella in cui, durante una lezione di danza, si esercita nella spaccata e dice «fa un male cane, ma non bisogna darlo a vedere». È questa la sua visione della moda, della donna, della bellezza. Non bisogna mostrare i tormenti interiori.

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