CINEMA: Intervista a Ignas Jonynas, regista del film “The Gambler”

GamblerIl film “The Gambler” racconta la storia di un medico di successo che comincia a scommettere sulla morte dei propri pazienti. Come si è arrivati a questo?
Il gioco è nella natura dell’uomo ed è parte della nostra cultura. Durante il gioco l’essere umano ha una percezione diversa di sé, trasmette sapere, impara e crea arte. Nel gioco l’uomo crea una dimensione sociale, sistemi simbolici ed istituzioni. Kristupas Sabolius, il filosofo che ha lavorato con me alla sceneggiatura di questo film, ha apportato al lavoro il pensiero di Huizinga, Gadamer, e soprattutto di Roger Caillois, il quale sostiene vi siano quattro tipi di gioco – Agon o competizione, alea o caso (per esempio dadi, roulette, e così via), mimicry o mimesi, ilinx o desiderio di stordimento (per esempio droghe).

Sebbene ci siano delle differenze, queste quattro tipologie hanno tutte qualcosa in comune: il gioco infonde la speranza di trascendere se stessi, di scappare dai problemi contingenti, di oltrepassare la propria condizione di essere umano. L’uomo gioca perché vuole liberarsi da quello che sta accadendo in un dato momento nella sua vita, perché sogna e brama la felicità, o addirittura la divinità e l’eternità. E nel gioco le regole, razionali e pensate, si fondono con l’irrazionale e l’impossibile: lo stordimento, l’estasi, la trance. Pur essendo rigidamente regolato, il gioco richiede passione.

Nel senso più profondo, il gioco è associato alla passione per la vita. Casinò, lotterie, giochi in TV, l’NBA, il mondo del calcio e quello dello spettacolo hanno imparato a sfruttare questa ambiguità, questa combinazione di passione e razionalità, per fare soldi. Il gioco ci permette di manipolare le nostre forze vitali, trovando sempre scuse plausibili. Le persone giocano d’azzardo da sempre e continueranno a farlo, nonostante impietose statistiche mostrino che è praticamente impossibile vincere. Le ricerche mostrano come la vita della stragrande maggioranza dei vincitori della lotteria finisca in tragedia; alcuni finiscono in prigione, si allontanano dalla famiglia o semplicemente spariscono senza lasciare traccia.

Nell’odierna società consumista, inoltre, vi è un determinato modello di vita felice, che appartiene al vincitore. Un uomo d’affari di successo vince sugli altri, vince la corsa, e vince i suoi milioni. Anche quando si compra la limonata al supermercato, ci si para davanti la possibilità di vincere qualcosa, nascosta sotto il tappo. Per questo motivo, il capitalismo sfrutta il senso di euforia costante legato alla vittoria costringendoci a giocare d’azzardo continuamente.

Il nostro film cerca di capire ciò che accade quando una persona schiava del gioco d’azzardo si trova ad affrontare una situazione di vita o di morte. Cambiando solo leggermente il punto di vista, la passione per la vita diventa desiderio di morte. O si tratta della stessa cosa? Dopo tutto, Freud aveva in mente qualcosa di simile quando parlava di Todestrieb, l’istinto di morte. Inoltre, il protagonista è una persona immersa in un ambiente post-sovietico, il che comporta il fatto che sia cinico, disperato e non creda
più nei giochetti delle ideologie. Sta cercando di creare il proprio gioco, perché non vuole conformarsi alle assurdità di quelli dei più potenti.

Vincentas è un uomo guidato da una moralità post-apocalittica; per lui il mondo è già imploso, per cui tutto quello che gli rimane è giocare per un’ultima volta. Perciò il proverbio banale “la vita è un gioco” per il protagonista trova un corollario in “anche la morte è un gioco”.

Tutto questo solleva inevitabilmente delle questioni etiche; sembra quasi che il suo film voglia diagnosticare la crisi della moralità.
Morale, etica, coscienza; sono queste le categorie che, nel ventunesimo secolo, sono sempre meno facili da percepire senza ambiguità. La perdita di fiducia nei confronti della politica e della religione, la ricerca egoistica del proprio benessere, e la ricerca universale del divertimento stanno cancellando i limiti il cui superamento una volta sarebbe stato definito una trasgressione. Siamo costretti ad affrontare un crudele paradosso etico e questo confronto causa delusione e rabbia. Questo dilemma globale e
universale si manifesta in un modo peculiare in Lituania. La storica sfiducia nelle ideologia frutto dell’ipocrisia del sistema sovietico, ci rende anti-idealisti di prim’ordine.

C’è una scena del film in cui il protagonista riceve un riconoscimento come miglior medico. Il premio è una tazza con il simbolo del Ministero della Salute, e dieci pacchi di una barretta di energia chiamata Hematogen. Come dovrebbe sentirsi? Forse come il protagonista de Il processo di Kafka, una persona coinvolta in un assurdo gioco sociale, in cui rappresenta solo un elemento senza importanza? Se avesse almeno una speranza, forse deciderebbe di innescare una rivoluzione. Vincentas, però, ha già vissuto delle rivoluzioni e sa che anche queste sono una parodia senza senso. Questo senso di assurdità è il punto di partenza di un processo di macabra autodeterminazione: se tutti stanno già giocando con me, allora farò altrettanto; ma questa volta, fino in fondo.

La storia di “The Gambler” è basata su eventi reali?
Quasi. Ho lavorato come inserviente presso l’ospedale psichiatrico in via Vasaron a Vilnius, mentre Kristupas ha lavorato con persone disabili in Italia. Durante la stesura della sceneggiatura abbiamo effettuato ricerche dettagliate; abbiamo incontrato molte persone e raccolto testimonianze spaventose. Queste esperienze, oltre che colloqui con medici, ci hanno aiutato a capire non solo come funziona il sistema di primo soccorso, ma anche quanto le decisioni morali prese dalle persone possano essere ambigue.

Abbiamo sentito delle storie orribili; alcune di queste erano state coperte molto dai media. Per questo motivo, siamo sicuri che un gioco del genere potrebbe benissimo aver luogo nella realtà; potrebbe essere in atto da qualche parte anche in questo momento. Il nostro, però, non è un film sui problemi del settore medico; l’ambulanza e il reparto di terapia intensiva dell’ospedale sono ricchi di drammi umani e situazioni critiche. The Gambler parla di noi, uomini di oggi, immersi nella società odierna. È inevitabile dover riconsiderare il proprio sistema di valori quando ci si trova in una situazione estrema. Da questo punto di vista, ognuno di noi è Vincentas.

Nel film si mescolano thriller, giallo e tragicommedia. La base del racconto, però, è la classica struttura drammatica. Come ha scelto il genere della pellicola?
La fase di stesura della sceneggiatura è stata complessa; abbiamo creato diverse versioni della sceneggiatura, sono state testate diverse strutture narrative, che spaziavano in generi differenti. Alcune scene sono frutto della sperimentazione con le possibili scelte dei personaggi, senza pensare a quello che avrebbero preferito i creatori del film, o a quello che avrebbe potuto attrarre il pubblico. Un thriller o un giallo vero e proprio richiederebbero una manicheismo dei personaggi, che dovrebbero quindi rappresentare chiaramente o il bene o il male. La commedia e la tragicommedia derivano da una critica sociale ed antropologica che esagera tutto attraverso la parodia. Il dramma classico, invece, è il genere puro, perfetto per raccontare una storia coerente ed
accattivante, limitando la funzione dei commenti degli sceneggiatori ad ornamento estetico.

Ha lavorato nell’industria del cinema, a teatro, e nel mondo della pubblicità. Questo film è anche una combinazione di varie tradizioni estetiche e a livello di fotografia. Che cosa ha ispirato queste scelte?
Volevo che il film fosse ricco dal punto di vista visivo, ma che non fosse troppo lontano dalla realtà. Inoltre, doveva essere accattivante, non solo dal punto di vista della storia in sé, ma anche dal punto di vista della critica nei confronti della nostra società. Nel tentativo di risolvere i problemi visuali legati a racconti di forte impatto come questo, ho preso ad esempio i classici reportage fotografici del ventesimo secolo, Weegee (Arthur Fellig) e Enrique Metinides. Entrambi furono in grado di cogliere come nessun altro gli aspetti filosofici ed estetici di eventi pubblici drammatici. Attraverso i corpi mutilati e le fotografie macabre permeano una pluralità di messaggi sfaccettati. In questo film volevamo ottenere un effetto simile, qualcosa che mostrasse delle immagini da cui permeassero metafore e simboli dell’esistenza umana.

Questo è il motivo per cui il film è stato girato sul mare e nel porto di Klaipeda. Si tratta di un luogo a metà tra l’acqua e la terraferma, aspetto che ricorda la psicologia dei personaggi. Per quanto riguarda i fattori che hanno influenzato il gusto estetico del film, bisogna menzionare diversi aspetti. Lavorare nel mondo della pubblicità mi ha insegnato lezioni fondamentali: prima di tutto, la capacità di adattare lo stile alla storia e non cercare di far uso di una “retorica vuota” fatta di immagini, e, in secondo luogo, la capacità di raggiungere risultati ottimi dal punto di vista visuale avendo a disposizione un budget limitato. La mia esperienza in campo teatrale, invece, mi ha permesso di non essere intimorito dal poco tempo a disposizione per le riprese e mi ha dato il coraggio di improvvisare con gli attori sul set con la massima autenticità.

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