CINEMA: Intervista a Pierre-Yves Gayraud, costumista del film “La bella e la bestia”

1607079_499396460168892_751019953_nCosa ha trovato di particolare nel progetto de “La Bella e la Bestia”?

Ho la fortuna di fare molti film d’epoca, ma anche film contemporanei, ed ho sempre cercato di trovare un buon equilibrio tra i due, per non ripetermi. Qui la sfida consisteva nel giocare con i codici di un film d’epoca, nel rivisitarli per trovare un buon equilibrio tra stilizzazione e magia. Quando sono entrato nel progetto, era stato già stabilito che l’azione si sarebbe svolta durante il Primo Impero, con un’incursione nel Rinascimento per creare l’universo della Bestia. Ho cominciato in Agosto e abbiamo girato a fine Ottobre, il che vuol dire in poco tempo. L’atelier è cominciato a Parigi e poi abbiamo trasferito tutto a Berlino per poter continuare la realizzazione dei costumi durante le riprese. Avevo già fatto molti film a Babelsberg, quindi non ero per niente preoccupato, anzi al contrario, è un luogo formidabile per lavorare. La nostra équipe era abbastanza mista già dalla partenza, con dei tedeschi e dei francesi. Un grosso problema s’è posto fin dall’inizio, che valeva sia per i vestiti di Belle che per quelli della Bestia: bisognava conciliare la volontà di avere dei costumi sartoriali con gli obblighi legati agli effetti speciali e alle inquadrature della seconda équipe. Ho cercato di non tener troppo in conto questi vincoli.

Si riferisce alle differenti versioni dello stesso costume?

Si. La maggior parte delle scene di Léa Seydoux erano girate dalla prima équipe con l’attrice stessa. Ma in alcuni casi, per passaggi nei corridoi, o grossi piani, bisognava in parallelo girare con delle controfigure e quindi avere delle copie esatte dei costumi. Questo ha un costo ed è complicato nella scelta dei materiali. Non ne ho davvero tenuto conto, nella misura in cui non mi sono negato alcune cose col pretesto che sarebbero state difficili da duplicare. Per esempio, Belle doveva correre sul ghiaccio, cadere nell’acqua, montare a cavallo, ma il suo personaggio non sapeva ciò che avrebbe dovuto affrontare. Per queste scene, indossava un abito rosso in organza, che è un materiale molto fragile e delicato. Sapevamo che lei avrebbe girato delle scene d’azione, ma non per questo avevamo modificato i nostri piani in questo senso. Questo ha semplicemente richiesto un po’ più di manutenzione e di vincoli per i costumisti.

Di che libertà disponeva?

C’erano delle direttive all’inizio, ma non è un segreto, Christophe è un cinefilo senza pari e, nel momento in cui sceglie un tecnico, è perché conosce molto bene quello che ha fatto. Mi ha lasciato molta libertà con un unico imperativo: eleganza, spettacolarità, meraviglia, ricchezza di tessuti e una moltitudine di colori. Un gran bel piano di battaglia! Solitamente mi affido agli stessi atelier da molti anni, ed il mio modo di approcciare ai costumi è piuttosto artigianale, il che vuol dire che lavoro direttamente sui manichini, senza per forza passare per il disegno. Ho concepito un lookbook, che è un insieme di documentazione, sia per l’epoca sia per i riferimenti venuti dalla moda, sotto forma di collage infografico. C’erano un centinaio di pagine che riprendevano tutta la tematica dei vestiti, colore per colore, i differenti universi legati al Primo Impero ed al Rinascimento. Ho sottoposto questo primo grande lavoro di documentazione a Christophe e agli attori, e a Léa soprattutto. Successivamente abbiamo lavorato le forme con delle stoffe sui manichini e poco a poco le cose si sono realizzate. Provo sempre a far si che i costumi non vampirizzino gli attori, che non li limitino troppo, lasciando spazio al gioco, all’espressione, in modo che non sia nemmeno una sfilata, che non sia fine a se stessa ma un elemento partecipe della drammaturgia.

Cosa vi ha interessato del periodo Impero?

È una moda molto moderna che crea una forma molto longilinea, molto raffinata. Si coniugava bene con il carattere dei personaggi e permetteva di essere sobri mantenendo il fascino e la freschezza. D’altra parte, potevamo passare ai costumi molto più imponenti e spettacolari del Rinascimento. L’equilibrio è stato ottimo.

Come hanno indossato i loro costumi gli attori?

Con gli attori, abbiamo fatto delle prove di tessuti, di volumi e di forme. Poi, abbiamo fatto dei campionari prima di passare alla realizzazione dei costumi. C’era un tema cromatico molto preciso per i vestiti che la Bestia donava a Belle: il primo abito avorio, il secondo blu, poi verde e infine rosso. Questo non era un obbligo, ma una scelta scenografica, di cui tutte le tavole degli stili che avevo proposto tenevano conto. Léa si muove magnificamente nei costumi, li vive bene senza essere approssimativa, è importante. Per la Bestia, siamo partiti dal principe, poiché è lui che diviene la Bestia dopo l’evento particolare. È quindi il costume del Principe che si trasforma nel costume della Bestia. Il suo corpo si trasforma per un effetto di morphing, il costume si trasforma di conseguenza, ma non in modo digitale… è stato davvero realizzato. L’abbiamo preparato in kit, e poi aggiustato e montato sul corpo della Bestia che sarebbe stato indossato da Vincent Cassel. Quindi questo costume si modifica, si allarga, rivela una spina dorsale nella parte posteriore del suo farsetto e valorizza la sua muscolatura. È molto ispirato ai costumi dei samurai giapponesi. Abbiamo avuto poco tempo per realizzarlo e abbiamo passato qualche notte in bianco affinché tutto fosse pronto.

Come avete scelto i materiali?        

In funzione degli effetti ricercati. Bisognava far si che il primo vestito di Belle fosse come una gogna, una specie di vergine spagnola ieratica, una geisha, molto lavorato nel ricamo e nelle applicazioni, con un lato molto sartoriale. La veste blu doveva essere scintillante, ed erano previste molte scene di movimento con questo vestito, quindi era vitale che fosse dinamico, sia sul ghiaccio che nell’acqua. Il vestito verde, in velluto, che rimanda a dei giochi d’origami, doveva essere contestuale al lussureggiante parco della tenuta della Bestia. L’abito rosso, infine, tutto permeato di sofisticatezza e fragilità. È stato quello che ha subito più alterazioni e più scene d’azione. Ne abbiamo confezionati tre esemplari che abbiamo modificato secondo com’era ferita. Sapevo che Christophe amava il cinema di Powell, ma anche che fosse molto sensibile a ciò che viene dal Giappone, dunque ci siamo ispirati agli origami, un sistema particolare di piegatura della carta, che abbiamo poi integrato sul dettaglio dei costumi, il lavoro delle maniche, le inserzioni della pietra e gli abbellimenti del ricamo. Ma proprio questa miscela d’universi molto differenti ha infine portato ad una direzione artistica coerente.

Come si coordinava con gli altri reparti?

Lo scenografo Thierry Flamand aveva cominciato ben prima di me a lavorare al progetto. Quando sono arrivato, l’universo era già stabilito, quindi era piacevole. Ad ogni modo, il riferimento di Christophe per questo film era soprattutto l’universo di Michael Powell, “Scarpette Rosse” e “Narciso Nero”, dai colori molto forti, molto contrastanti, che ritroviamo anche nei film del giapponese Miyazaki, delle ottime fonti d’ispirazione per orientare la ricerca tessile d’un film. È per restare fedeli a quest’universo che ho opposto un po’ di resistenza quando la produzione mi ha suggerito di affittare i costumi per la scena del ballo. Lì ho davvero insistito per fabbricare dei costumi come se girassimo in technicolor. Abbiamo trovato un accordo con un fabbricante di tessuti tedesco che ci ha molto sostenuti in questo senso. Michael Powell è anche molto presente nelle estensioni delle scenografie, con dei bei colori profondi e contrastanti. Dalle immagini finali che ho visto, il tutto è magnificamente valorizzato dalla luce di Christophe Beaucarne.

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