CINEMA: Intervista a Sergio Basso, regista del film “Amori elementari”

1549573_631801010218338_71833983_nIl film “Amori elementari” racconta con leggerezza e umorismo i primi amori e i primi indissolubili legami di amicizia. La pellicola uscirà il 20 febbraio al cinema. Ecco un’intervista al regista Sergio Basso.

“Amori Elementari” è un film rivolto soprattutto ai giovanissimi, un pubblico spesso trascurato dal cinema italiano. E parla di un momento molto particolare della nostra vita: quello del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Perché hai fatto questa scelta per il tuo primo film di finzione?

L’infanzia è un po’ come un vaso di pandora per la mia ispirazione, un big bang. È proprio come una terra in cui affondare i piedi, per crescere, comunicare. Mi diverto moltissimo a lavorare con i bambini e per i bambini, e quindi mi è sembrato un privilegio poter girare con un cast di bambini. Gli attori adulti poi mi hanno aiutato moltissimo, quando passavo a loro mi sembrava di guidare con il cambio automatico. Il film è ambientato per metà in Russia: è una terra che dedica grande attenzione all’infanzia, e che ha sempre sfornato fiabe ammalianti. Una terra magica. Quando è stato il momento di scrivere una storia sui primi sobbalzi del cuore, una storia sull’amore, ci è parso naturale ambientarla un po’ anche in Russia, tra quelle cupole di chiese che sembrano marshmallow.

Com’è stato lavorare con ragazzi sul set? Hai usato un metodo particolare?

Mettere assieme questo gruppo non è stata una passeggiata. Si trattava di trovare sei ragazzi che potessero reggere sulle spalle tutto il film. Il casting è durato un anno e mezzo, e abbiamo incontrato centinaia di bambini tra Mosca, Roma, Milano, Torino, Bologna, tutti i paesi delle dolomiti, come Alleghe e Cortina. Fatta la scelta, è iniziato il lavoro sui personaggi. Ciascuno aveva la sua energia, i suoi punti di forza ed anche, perché no, le proprie debolezze. Con loro ho fatto prima delle vere e proprie prove teatrali di tutto il copione, perché tutti vedessero il proprio personaggio, quello degli altri, e come ciascun personaggio si evolveva nella storia. Così poi quando abbiamo iniziato a girare, e un film si gira tutto “spezzettato”, i bambini sapevano in che punto della storia eravamo, non erano disorientati e potevano contribuire. Ecco, contribuire: perché io cercavo di scaldarli, tipo un fabbro con il ferro rovente, di portarli a un certo gradiente di energia; e poi ho cercato di raccogliere, di mietere quello che lori si inventavano, di convogliare la loro passione, verso il film. Alcune scene sono state anche improvvisate al momento, grazie al fatto che, in questo processo, i bambini hanno costruito un grandissimo affiatamento tra di loro, una grande complicità. E poi erano  concentratissimi, non conoscevano la fatica. Sono loro che hanno insegnato a me tutte queste cose.

Come molti fra i più interessanti registi della nuova generazione, hai iniziato dal documentario, raccogliendo consensi e riconoscimenti. Ma tutti i tuoi lavori sono caratterizzati dalla tendenza a mescolare diversi linguaggi espressivi. Anche in “Amori Elementari” c’è un uso molto originale delle tecniche d’animazione. Che radici ha questa scelta estetica?

Da bambino ero una teppa. In milanese indica un peperino. Adoravo la pittura “digitale”, quella proprio con le dita, sporcarmi le mani, ritagliare, incollare. Poi mio padre si fermava in salotto a guardare libri su Bosch. Io mi perdevo in questa epifania di invenzioni, di colori vivissimi, e di profondità direi. Lo sguardo si perde, il tempo si sospende. Molti anni dopo, quando è stato il momento di essere creativi, è stato abbastanza naturale mescolare generi, in una sorta di “sindrome di Prospero”, il protagonista della Tempesta di Shakespeare. Non ti nascondo che a volte avrei voglia di maggiore asciuttezza, di più sobrietà. Però mi dico anche che c’è tempo per questo. Quando avrò settant’anni magari. E lo ripeto molto chiaramente, perché secondo me in Italia noi giovani registi facciamo cinema per compiacere una generazione più anziana, quella dei critici e dei direttori dei festival, e non la nostra generazione o quella appena successiva, che è quella del pubblico, ed anche del pubblico del nostro futuro, che crescerà con noi. Ti faccio un esempio. Nel corso del film c’è una partita molto importante di hockey. È raccontata da due radiocronisti: uno è Sandro Piccinini, che è una voce nota della Champion league, l’altro è Sergio Matteucci, che era la voce delle partite di Holly e Benji, un manga sul mondo del calcio degli anni Ottanta. Per la mia generazione è un mito assoluto, e a tutti i miei coetanei che hanno visto il premontato del film, è venuta la pelle d’oca a sentire quella voce. Ora, per molti spettatori più adulti sembrerà un riferimento basso e commerciale, anzi magari non dice niente. Però io mi sono stancato di avere timore su ciò che mi emoziona. E spero che questa mancanza di remore emerga nel film, come una botta d’energia.

“Amori Elementari” nasce come progetto internazionale. La seconda parte del film è girata interamente in Russia. Tu, fra l’altro, hai studiato con Jurij Alschitz, sotto l’egida dell’Accademia d’Arte Drammatica di Mosca. Hai vissuto e lavorato in Cina e ora sei in partenza per il Nepal. Cosa ti hanno dato queste esperienze?

Questa è una domanda enorme! Tornare in Russia dopo tredici anni mi ha emozionato molto. Ho studiato teatro lì, hanno una tradizione teatrale e culturale di grande spessore, ci sono artisti di grandissima sensibilità. Lavorare con la troupe russa è stato portentoso, sono grandi lavoratori e si son prodigati molto per questo film. E dire che la lavorazione non è stata facile: in certi giorni sul set faceva meno 22 gradi. Era difficile per gli attori parlare, pensa per un macchinista mettere un carrello. Una mattina ne hanno dovuto mettere uno di 36 metri, ma non mi hanno maledetto. Mi piace lavorare fuori, ho fame di mondo, e stare a contatto con altre culture mi ispira, mi mette voglia di raccontare nuove stori, o di raccontare storie anche italiane, ma con uno sguardo rinnovato. Mi insegna a visualizzare le storie, secondo tradizione artistiche diverse: penso ai dipinti cinesi, alle stampe giapponesi, ai tangka tibetani, alla sobria arte newari del Nepal, alla fantasmagoria dell’arte indiana nelle grotte di Ajanta. Il mio cinema risente tantissimo delle varie architetture dei paesi in cui ho lavorato. Ma soprattutto delle rughe e dei sorrisi delle facce della gente. Infine, la Cina rurale e il Nepal mi hanno regalato la semplicità e la resistenza. La nostra crisi di questi anni è comunque lusso per loro, che riescono sempre a sfoggiare un sorriso per tutti e a generare idee, avere un’attitudine “verticale”, una dignità pazzesca: vedere una monaca di settant’anni decorare bene tutta sola un tempio perso nel deserto del Gobi, o due adolescenti preparare un tè in una capanna di alluminio nella giungla al confine nepalese vicino a Darjeeling, parlando di un buon libro. Direi che è un grande insegnamento per – una volta tornato in italia – “stiff upper lip”: “palla lunga e pedalare”.

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